L’identità dei laici ruota attorno a tre bipolarità.
1 Vocazione – Missione. Il primo termine rimanda al fondamento, all’identità del laico, visto da una prospettiva ad intra (essere); il secondo suggerisce piuttosto la proiezione ed estrinsecazione dell’identità laicale ad extra (agire).
2 Chiesa – Mondo. Dal primo binomio, scaturisce il secondo. “Chiesa” è difatti la comunità dei “vocati da” (dal greco ek-kaléo). Il “mondo” è il luogo della missio, per la quale sì è stati chiamati. La duplice cittadinanza dei fedeli laici può essere ben rappresentata dai due movimenti del ciclo cardiaco: diastole (chiamati) e sistole (mandati). È qui che pulsa il cuore della Chiesa!
3 Ecclesialità – Laicità. Anche in questo caso bisogna evitare di disgiungere i due poli: si tratta di Christifideles laici! Quale ecclesialità? Quale laicità? La dignità dei fedeli laici ci si rivela in pienezza se consideriamo la prima e fondamentale vocazione: la vocazione alla santità (cfr. Christifideles Laici, 16).
1. PARTE PRIMA: LA STORIA DEL LAICATO
1.1 Laicità: il termine rimanda a una definizione in negativo non ancora superata, tanto è vero che si sente il bisogno di riempire con un’aggettivazione il vuoto semantico: “laici impegnati”! Del resto l’ambiguità del termine resta irrisolta anche al di fuori dell’ambito strettamente ecclesiale: “laico”, “laicità” sono divenuti sinonimi di secolare, secolarizzazione.
1.2 La Chiesa primitiva. Nei primi testi cristiani si nota l'”assenza” del termine laico (si preferisce i fedeli, i testimoni). Tutti i carismi sono valorizzati e si ha la militanza attiva di tutto il popolo di Dio. Non vi è opposizione clero-laici. Il conflitto è semmai con l’impero romano. Le prime chiarificazioni e distinzioni dei termini si hanno a partire dal terzo secolo. E tuttavia non è da mitizzare tale periodo, opponendolo ad una successiva istituzionalizzazione della Chiesa cattolica, quasi che si sia smarrito per via l’originaria freschezza iniziale. La distinzione clero – laici è legata al sorgere delle prime eresie.
1.3 Il medioevo: nella societas christiana (il Sacro Romano Impero) ai laici ciò che è dei laici. Spesso si imputa al medioevo l’origine della marginalizzazione dei laici. Le radici di tale incomprensione invece non sono da ricercare nel medioevo (che dava ai laici una grande importanza, tanto da riconoscere all’imperatore il principatus in electione. Cfr. anche i grandi movimenti pauperistici e di riforma della Chiesa tutti a chiara connotazione laicale), ma nell’età controriformistica, come reazione agli eccessi della Riforma.
Tre esempi: la visione trinitaria della Chiesa di Gioacchino da Fiore: i tre ordines e il loro proprium [l’ordo coniugatorum o laicorum sotto il segno del Padre (creazione); l’ordo praedicatorum o clericorum sotto il segno del Figlio (redenzione); l’ordo monachorum sotto il segno dello Spirito (santificazione)]; S. Francesco e la predicazione in volgare, il terz’ordine francescano; Dante e la teologia ai laici.
1.4 L’Umanesimo e la Riforma. La coincidenza del laicato con la societas christiana si rompe con i primi sintomi del processo di secolarizzazione iniziato con l’Umanesimo: in una società non più (non solo) cristiana, laico si oppone a clericale = ecclesiale. La Riforma e la marginalizzazione del laicato nella Chiesa cattolica. La clericalizzazione della Chiesa e la svalutazione delle realtà terrene.
1.5 L’età moderna e la crisi della Chiesa societas perfecta. Dopo una prima risposta difensiva, la secolarizzazione rimette in gioco il ruolo insostituibile dei laici. Ciò non è senza traumi e incomprensioni sul giusto riconoscimento della legittima autonomia delle realtà terrene (cfr. la vicenda complessa del modernismo).
1.6 Gli istituti secolari. Storicamente hanno avuto il merito di aver ridato cittadinanza al laicato nella Chiesa; anche se attraverso la “consacrazione” che in qualche modo gli equiparava agli ordini religiosi.
1.7 La ripresa della coscienza laicale: l’Azione Cattolica Italiana. Cfr. la storia dell’AC e lo Statuto del 1923 in cui i ruoli dei laici e dei presbiteri in AC vengono finalmente distinti. Il 23 dicembre esce l’enciclica Ubi arcano Dei in cui Pio XI enuncia il motto del suo pontificato Pax Christi in Regno Christi. In essa il papa dichiara che quando i laici di AC “uniti ai loro sacerdoti e ai loro Vescovi, partecipano alle opere di apostolato e di redenzione individuale e sociale, allora più che mai essi sono il genus electum, il regale sacerdotium, la gens sancta, il popolo di Dio che San Pietro magnificava”. È in germe l’annuncio del Concilio.
1.8 Il Concilio Vaticano II. Il Concilio rilancia il protagonismo laicale nella Chiesa e nel mondo. Si vedano la Lumen Gentium, la Gaudium et Spes e l’Apostolicam Actuositatem (Cfr. infra, Parte seconda).
1.9 Il cammino postconciliare.
1.9.1 L’Azione Cattolica. Classica è la definizione di Paolo VI: “Su di un punto vogliamo richiamare la vostra attenzione: la particolare rilevanza dell’AC che, in quanto collaborazione dei laici all’apostolato gerarchico della chiesa, ha un posto non storicamente contingente, ma teologicamente motivato nella struttura ecclesiale. Dopo quanto ne ha detto il Concilio e quel che noi stessi avemmo occasione di sottolineare nella nostra esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, il ruolo specifico dell’AC nel disegno costituzionale e nel programma operativo della Chiesa non può essere sottovalutato. Essa è chiamata a realizzare una singolare forma di ministerialità laicale, volta alla plantatio ecclesiae e allo sviluppo della comunità cristiana in stretta unione con i ministri ordinati (Paolo VI alla terza Assemblea nazionale dell’ACI, 25.04.1977).
1.9.2 I movimenti laicali postconciliari. Schematizzando (con tutti i limiti delle schematizzazioni!) si possono individuare due caratteristiche comuni nei movimenti laicali postconciliari: il riferimento alla teologia dei carismi e ministeri e del sacerdozio comune; lo sganciamento dal riferimento alla realtà territoriale locale (la parrocchia, la diocesi). Per quest’ultimo aspetto in qualche modo vi sono analogie col sorgere dei movimenti religiosi.
1.10 La Christifideles laici (30.12.1988). Si prende atto del cammino postconciliare. Si formulano 5 criteri di ecclesialità per le aggregazioni laicali.
A 50 anni dal Concilio, è possibile oggi una cittadinanza piena del laicato senza aggettivi? Ritrovare un rapporto clero-laici “senza confusione, trasformazione, separazione, divisione”?
2. PARTE SECONDA: LA TEOLOGIA DEL LAICATO
2.1 Ripartire dal Concilio nella prospettiva della nuova evangelizzazione: «Situazioni nuove, sia ecclesiali sia sociali, economiche, politiche e culturali, reclamano oggi, con una forza del tutto particolare, l’azione dei fedeli laici. Se il disimpegno è sempre stato inaccettabile, il tempo presente lo rende ancora più colpevole. Non è lecito a nessuno rimanere in ozio» (Christifideles laici, 3).
Il Concilio dà una definizione in positivo. Il proprium dei laici è l’indole secolare: «L’indole secolare è propria e peculiare dei laici» (Lumen Gentium, 32). «Nel dare risposta all’interrogativo “chi sono i fedeli laici”, il Concilio, superando precedenti interpretazioni prevalentemente negative, si è aperto ad una visione decisamente positiva e ha manifestato il suo fondamentale intento nell’asserire la piena appartenenza dei fedeli laici alla Chiesa e al suo ministero e il carattere peculiare della loro vocazione, che ha in modo speciale lo scopo di “cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio” (Lumen Gentium, 31)». Così la Christifideles laici, 9.
E ancora: «Il cristiano che trascura i suoi impegni temporali, trascura i suoi doveri verso il prossimo, anzi verso Dio stesso, e mette in pericolo la propria salvezza eterna» (Gaudium et Spes, 43).
2.2 Vocazione e missione dei laici sono radicate nel battesimo. La laicità è illuminata inoltre dal mistero trinitario e da quello cristologico. Battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, siamo incorporati a Cristo. Chiamati dal Padre ad essere figli, a immagine del Figlio, riceviamo una missione nel mondo. «Non è esagerato dire che l’intera esistenza del fedele laico ha lo scopo di portarlo a conoscere la radicale novità cristiana che deriva dal Battesimo […] Il Battesimo ci rigenera alla vita dei figli di Dio, ci unisce a Gesù Cristo e al suo Corpo che è la Chiesa, ci unge nello Spirito costituendoci templi spirituali» (Christifideles laici, 10).
2.2.1 Laici e mistero trinitario: vocazione alla santità e responsabilità della creazione.
La vocazione alla santità esige il ripensamento e il superamento della contrapposizione sacro vs profano. Santo (da sancire) indica un patto, un’unione, diversamente da sacro (da sacer, cfr. secerno, secretum) che rimanda ad una separazione.
«La dignità dei fedeli laici ci si rivela in pienezza se consideriamo la prima e fondamentale vocazione che il Padre in Gesù Cristo per mezzo dello Spirito rivolge a ciascuno di loro: la vocazione alla santità, ossia alla perfezione della carità» (Christifideles Laici, 16).
«L’unità della vita dei fedeli laici è di grandissima importanza: essi, infatti, debbono santificarsi nell’ordinaria vita professionale e sociale. Perché possano rispondere alla loro vocazione, dunque, i fedeli laici debbono guardare alle attività della vita quotidiana come occasione di compimento della sua volontà, e anche di servizio agli altri uomini, portandoli alla comunione con Dio in Cristo» (Apostolicam Actuositatem, 4).
La missionarietà dei laici si caratterizza come impegno essenzialmente religioso e fa proprio il fine apostolico della Chiesa, ossia «l’evangelizzazione, la santificazione degli uomini, la formazione cristiana della loro coscienza in modo che riescano a permeare di spirito evangelico le varie comunità e i vari ambienti” (Apostolicam Actuositatem, 20).
Ai laici spetta in modo peculiare la responsabilità della creazione. Il termine “mondo” esprime tuttavia l’ambiguità in cui è caduta la creazione dopo il peccato. Secondo la visione trinitaria della Chiesa, i laici, sotto il segno del Padre, hanno il compito di ordinare le realtà temporali; sotto il segno del Figlio di riscattarle dal dominio del peccato e renderle a Dio gradite, sotto il segno dello Spirito di santificarle e animarle dal di dentro.
2.2.2 Laici e cristologia: Il sacerdozio universale.
«Come chiamiamo tutti cristiani in forza del mistico crisma, così chiamiamo tutti sacerdoti perché sono membra dell’unico sacerdote» (S. Agostino, De Civitate Dei, XX, 10).
«Rallegriamoci e ringraziamo: siamo diventati non solo cristiani, ma Cristo […]. Stupite e gioite: Cristo siamo diventati!» (S. Agostino, In Ioann. Evang. tract., 21, 8).
La missione del laico: i tria munera Christi: regnum, sacerdotium, prophetia, esercitati nell’ordine temporale. «Col nome di laici si intendono qui tutti i fedeli ad esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso sancito dalla Chiesa, i fedeli, cioè, che, dopo essere stati incorporati a Cristo col Battesimo e costituiti Popolo di Dio e, a loro modo, resi partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano» (Lumen Gentium, 31)
Le due tentazioni: clericalismo e laicismo. «In particolare si possono ricordare due tentazioni alle quali non sempre essi [i laici] hanno saputo sottrarsi: la tentazione di riservare un interesse così forte ai servizi e ai compiti ecclesiali, da giungere spesso a un pratico disimpegno nelle loro specifiche responsabilità nel mondo professionale, sociale, economico, culturale e politico, e la tentazione di legittimare l’indebita separazione tra la fede e la vita, tra l’accoglienza del Vangelo e l’azione concreta nelle più diverse realtà temporali e terrene» (Christifideles laici, 2).
Per recuperare una teologia del laicato autenticamente “cattolica”, occorre ripartire dalla cristologia calcedonese, in modo da poter restituire ai laici un’identità fatta a immagine di Cristo “vero Dio e vero uomo”.
Nella formula di Calcedonia (451), si trova la famosa dottrina dell’unione ipostatica: “Noi confessiamo l’unico e uguale Cristo, il Figlio e Signore, l’unigenito, che esiste in due nature [en dùo physin] non mischiate e non cambiate, indivise e inseparate [inconfuse – asynchytos, immutabiliter – àtreptos, indivise – adiàiretos, inseparabiliter – achòristos]. La differenza delle nature non verrà eliminata dall’unione, verrà invece conservata la peculiarità [idìotes] di ognuna delle nature nell’unione di entrambe in una persona o ipostasi”. I primi due avverbi si opponevano a Eutiche, gli altri due a Nestorio.
Negli anni ’70 prevale il nestorianesimo ecclesiale: la separazione-divisione dell’impegno laicale dalla trascendenza. Cfr. i movimenti di liberazione, i cristiani per il socialismo, in cui l’impegno laicale si appiattiva sull’unico versante secolare, e veniva separato dalla prospettiva religiosa.
Oggi si assiste invece ad una sorta di monofisismo ecclesiale, con movimenti laicali che hanno caratteristiche analoghe ai movimenti religiosi. Di tale criticità fu testimonianza negli anni passati la polemica Forte-Lazzati, con il primo che sottolineava la ministerialità di tutta la Chiesa, e il secondo che preferiva mantenere la distinzione laico-clero. Cfr. LG 10: “Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo”. Una Chiesa tutta ministeriale, nel legittimo tentativo di riconoscere il sacerdozio comune, non rischia di annullare la diversità essentia, non non gradu tantum tra clero e laicato? Una diversità che costituisce lo specifico ecclesiale del cattolicesimo!
In AC questa distinzione è chiara: l’Associazione è dei laici; gli Assistenti non ne fanno parte, ma sono chiamati a promuovere le vocazioni laicali facendole maturare nel sensus Ecclesiae. Così la GS 38: “I doni dello Spirito sono vari; alcuni li chiama a dare testimonianza manifesta della dimora celeste col desiderio di essa, contribuendo così a mantenerlo vivo nell’umanità; altri li chiama a consacrarsi al servizio degli uomini sulla terra, così da preparare attraverso tale loro ministero, quasi la materia per il regno dei cieli”.
Per tali ragioni, travisano l’autentica identità dell’AC, coloro che vorrebbero che il ministero laicale dell’AC divenisse ministero istituito: verrebbe meno in tal modo lo specifico laicale.
Nella storia dell’associazione la coscienza del proprio ministero laicale è stata sempre viva ed avvertita. Si vedano, ad es., le proteste di parecchi presidenti diocesani contro lo Statuto del 1940 in cui l’AC veniva equiparata ad un ufficio diocesano di Curia il cui immediato responsabile era il vescovo e i Presidenti ridotti al ruolo di segretari. Il nuovo Statuto entrò in vigore il 4 giugno a poche ore dalla dichiarazione di guerra. Per la prima volta tutte le cariche direttive furono affidate a membri del clero, mentre ai laici si riservarono compiti consultivi e complementari. Le Giunte ai vari livelli si trasformarono in Uffici. Gli Uffici diocesani vennero a far parte della Curia vescovile. Si trattava di una misura protettiva strettamente legata alle circostanze e volta a preservare l’AC da attacchi del fascismo (tanto è vero che già nel 1946 Pio XII faceva approvare un nuovo Statuto in cui si ridavano ai laici i loro ruoli), eppure suscitò vari malumori, a testimonianza della forte coscienza dell’autonomia laicale dell’associazione .
Occorre dunque mantenere nel loro dinamismo fecondo le polarità clero-laici=Chiesa-mondo=Chiesa-Regno di Dio. Il Regno è irriducibile alla Chiesa: in tal senso i laici sono il segno della non esaustività della dimensione ad intra della comunità ecclesiale. La cultura della differenza non si oppone alla cultura dell’uguaglianza, ma a quella della in-differenza!
3. PARTE TERZA: IN MISSIONE DA LAICI
3.1 LA BUSSOLA DELLA MISSIONE: I 5 CRITERI DI ECCLESIALITÀ.
Una bussola certa per evitare derive clericali o laiciste, ci è offerta dai 5 criteri di ecclesialità per le aggregazioni laicali, formulati nella Christifideles laici, 30).
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Il primato dato alla vocazione di ogni cristiano alla santità.
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La responsabilità di confessare la fede cattolica.
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La testimonianza di una comunione salda e convinta.
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La conformità e la partecipazione al fine apostolico della Chiesa.
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L’impegno di una presenza nella società umana.
3.2 LA VIA DELLA MISSIONE: L’UOMO.
Dalla maggior consapevolezza teologica della identità e vocazione dei laici, deriva a tutta la Chiesa una maggior consapevolezza della propria missione nel mondo. Il giusto equilibrio fra ecclesialità e laicità evita di ridurre la missionarietà a proselitismo, da un lato, o a mero attivismo sociale, dall’altro. La svolta antropologica conciliare, ripresa vigorosamente dal magistero di Giovanni Paolo II, fa dell’uomo la via fondamentale della missione della Chiesa: «La Chiesa non può abbandonare l’uomo, la cui “sorte”, cioè la scelta, la chiamata, la nascita e la morte, la salvezza o la perdizione, sono in modo così stretto ed indissolubile unite a Cristo […]. Quest’uomo è la prima strada che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione: egli è la prima e fondamentale via della Chiesa, via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell’Incarnazione e della Redenzione» (Redemptor Hominis, 14).
Possiamo declinare l’assunzione dell’uomo come via privilegiata della missione, in tutta la sua complessa e molteplice realtà, lungo quattro direttrici: la via della quotidianità; la via della progettualità; la via dell’interiorità, la via del dialogo e dell’annuncio.
3.2.1 : La via della quotidianità: dal sensazionalismo alla semplicità.
La missione dei laici si attua nell’ordinarietà. La via della quotidianità è profezia in un mondo alla ricerca spasmodica dello straordinario. L’Incarnazione è il parametro per giudicare la storia: lo straordinario è con noi. «Spirito di verità… conduci l’umanità a riconoscere in Gesù di Nazareth il Signore della gloria, il Salvatore del mondo, il supremo compimento della storia» (Giovanni Paolo II, Preghiera per il secondo anno di preparazione al grande Giubileo del 2000). I 30 anni “ordinari” di Gesù a Nazareth testimoniano che la salvezza che si compie nella ferialità dell’esistenza assumendone integralmente la quotidianità.
Incarnazione e laicità: riscoprire, con il Concilio, la laicità come dimensione ordinaria e feriale della Chiesa. Il sacerdozio comune dei fedeli li abilita a consacrare il mondo a Cristo, scoprendo lo straordinario nell’ordinario, per ricapitolare tutto in Cristo.
Laicità vuol dire un’ecclesialità incarnata nella storia e radicata nel territorio, che tuttavia non si esaurisce totalmente nella dimensione mondata: cfr. la cristologia giovannea: “E venne ad abitare in mezzo a noi“. Il verbo “abitare” è richiamato sia dal termine diocesi (dia-oikéo= abitare in mezzo o anche: separatamente); sia dal termine parrocchia (para-oikéo= abitare vicino, detto specie di stranieri). È quanto afferma la Lettera a Diogneto: i cristiani sono anima mundi, nel mondo, ma non del mondo.
Laicità è inoltre dimensione di tutta la Chiesa. La Chiesa abita in mezzo, vicino alle case, alle città degli uomini, pur senza confondersi con esse (sempre Calcedonia!). I fedeli laici vivono questa dimensione “economica” della Chiesa, nella sua articolazione diocesana e parrocchiale.”Ecco ciò che conta in ultima analisi: lasciar entrare Dio. Ma lo si può lasciar entrare solo là dove si vive, e dove si vive una vita autentica. Se instauriamo un rapporto santo con il piccolo mondo che ci è affidato, se, nell’ambito della creazione con la quale viviamo, noi aiutiamo la santa essenza spirituale a giungere a compimento, allora prepariamo a Dio una dimora nel nostro luogo, allora lasciamo entrare Dio” (M. Buber, Il cammino dell’uomo, Ed. Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano 1990, p. 64).
3.2.2 La via della progettualità: dal frattempo ala storia.
Viviamo il tempo come collezione di attimi. Siamo alla ricerca disperata del tempo perduto. Il tempo nella società dei consumi è Kronos che divora i suoi figli: il tempo è… denaro! Non c’è spazio per l’attesa e la pazienza. Si vive in un presenzialismo senza storia: ma la memoria storica è la radice per la promessa e l’apertura al futuro. Solo così il tempo può essere abitato dalla speranza: “Melius ostendimus nova, si diligentius vetera perscrutamur” (Gioacchino da Fiore). Abbiamo chiaro il futuro se scrutiamo bene il passato.
È dunque urgente una ripresa del dialogo intergenerazionale per ridare fiato allla speranza: dalla memoria del passato la garanzia che la speranza futura non sia utopia: si veda l’icona biblica di Pietro e Giovanni alla tomba vuota. Il secondo, il giovane, corre più veloce, ma poi attende l’arrivo del più vecchio per entrare dentro il sepolcro.
È inoltre necessario passare dalla mentalità del programma, che pretende di calcolare scientificamente tutto col misurino del chimico, che prevede rischi e pericoli per avere un’assicurazione di successo garantito, a quella del progetto, che vuol dire “gettarsi innanzi” col coraggio dell’acrobata sul trapezio, che si getta nel vuoto, fiducioso che mani amiche lo afferreranno, così come mani amiche lo hanno lanciato. Progetto che non può essere la semplice esecuzione di un percorso già prestabilito, ma comporta la scelta morale, l’opzione fondamentale, il rischio di decidersi per un valore.
3.2.3 La via dell’interiorità: dal frammento al tutto.
Lo spazio dove abita la speranza è l’anima. L’anima è difatti incrocio tra passato che permane e futuro che viene anticipato, è il luogo dove anche il presente trova il suo senso (S. Agostino). “Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas: et si tuam naturam mutabilem inveneris, trascende et te ipsum” (S. Agostino, De vera religione, 39, 72). [Non andare fuori, ritorna in te stesso, la verità abita dentro l’uomo: ma se vi avrai trovato la tua natura mutabile, supera anche te stesso].
L’interiorità ci consente di fare sintesi e di non disperderci nei mille rivoli di un attivismo frenetico ma in fondo autoreferenziale ed autocompiaciuto. Tuttavia, per il Santo d’Ippona, c’è un altro rischio: la ricerca dell’assoluto, può essere un vicolo cieco se l’uomo non è capace di trascendere sé stesso, andando dal “dentro” all'”oltre”. Il ripiegamento su sé stessi, limite di tante esperienze spiritualistiche, nasconde il pericolo dell’avvitamento “paranoico”, dell’autocompiacimento: occorre andare oltre, superando la dimensione “religiosa” per fare il salto della fede. Il pericolo è quello di trincerarsi dentro una religione intimistica o legalistica in cui si è smarrito l’autentico volto del Dio cristiano. Un’interiorità aggrappata alle proprie certezze religiose è uno spazio esistenziale dove non abita il Dio di Gesù Cristo. Il quale, semmai spariglia le nostre solide convinzioni. E se Dio non c’è, l’uomo non va da nessuna parte. Perché l’uomo non possiede la verità, ma da essa è posseduto. Secondo Kant due sono le scoperte fondamentali dell’uomo: il cielo stellato sopra di noi e la legge morale dentro di noi. Senza il cielo stellato sopra di noi, anche la coscienza si oscura. E produce mostri. E la libertà umana si avvita su sé stessa in un giro a vuoto. Perché l’uomo non ha più domande da porsi. Perché sa già le risposte o perché, al contrario, ha rinunciatio a cercarle. Le domande hanno senso, se non si hanno le risposte ma da qualche parte sappiamo che c’è una possibile risposta. Difficile, forse impossibile da raggiungere, ma c’è. Altrimenti la ricerca dell’uomo diviene un vacuo esercizio retorico. Invece essa è un cammino continuo di conversione, fatto di progressi e battute di arresto, ma non di inversioni, di un ritornare semmai sui propri passi per ripartire col piede giusto
3.2.4 La via del dialogo e dell’annuncio: dalle parole alla Parola.
Due sono le parole chiave che caratterizzano la nuova evangelizzazione: dialogo e annuncio. Possiamo collocarle all’incrocio di due assi cartesiani: il dialogo sta su quello orizzontale, che implica il rapporto con il mondo degli uomini, con le molteplici sue ansie e speranze: è l’asse dell’incontro cordiale con le culture, i problemi, i dubbi, le illusioni e le delusioni dell’uomo “qui ed ora”; l’annuncio sta invece su quello verticale, che dice trascendenza e rimanda ad una realtà più alta che supera l’oggi storico: è l’asse dell’incontro con Dio, con le esigenze di una vita “altra”, con la dimensione dell’infinito.
Ora, non è possibile separare i due assi, se non vogliamo che il dialogo si appiattisca e si svuoti, divenendo “chiacchiera” o, peggio, acquiescente accettazione del mondo così come è. Un dialogo di questo tipo perde mordente, non è capace di suscitare alcuna trasformazione e rinnovamento, non provoca la conversione. Viceversa, l’annuncio che non accolga anche la dimensione orizzontale, e faccia a meno del dialogo, non riesce più a comunicare con gli uomini, e si riduce a propaganda intollerante o a proselitismo settario.
Deve essere invece possibile coniugare insieme Dio e uomo, eternità e storia, annuncio e dialogo. Tale inconcepibile possibilità ci è data nella e dalla croce di Cristo, in cui si incontrano i due assi, e Dio abbraccia l’uomo, inchiodandosi per sempre alla sua storia di peccato, che in tal modo viene redenta e si apre alla prospettiva verticale. Non è forse un caso che i Testimoni di Geova, che riducono l’annuncio ad un verticalismo senza storia e non accettano il dialogo, abbiano immaginato il Cristo morente non sulla croce, ma… su di un palo!
4. LA CHIAVE, IL CENTRO E L FINE DELLA MISSIONE: CRISTO.
Se l’uomo è la via fondamentale della Chiesa, Cristo che rivela l’uomo all’uomo, ne costituisce la chiave di volta, l’alfa e l’omega. L’evangelizzazione culminerà nella rivelazione dei figli di Dio: “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infattiche tutta la creazione geme e soffre fino a oggi, nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del corpo” (Rm 8,19-23). Il brano paolino ci insegna che la cristificazione del cosmo è attesa e lotta. Così commenta la LG 35: “Essi [i laici] si mostrano figli della promessa, se forti nella fede e nella speranza mettono a profitto il tempo presente (cfr. Ef 5,16; Col 4,5) e con pazienza aspettano la gloria futura (cfr. Rom 8,25). E questa speranza non la nascondono nell’interno del loro animo, ma con una continua conversione e lotta “contro i dominatori di questo mondo tenebroso e contro gli spiriti maligni” (Ef 6,12), la esprimono anche attraverso le strutture della vita secolare”.
I laici pronti ad affrontare con spirito nuovo il terzo millennio sono quelli che hanno trovato nel loro Signore e Maestro “la chiave, il centro e il fine dell’uomo nonché di tutta la storia umana” consapevoli che “al di sotto di tutti i mutamenti ci sono molte cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli” (TMA., n. 59).
Si ripropone oggi, come nei secoli passati, il grande problema sdell’inculturazione della fede. La cultura autentica è quella che si apre al trascendente. Lungi dal blandire i maestri del “pensiero debole”, tuttoil magistero di papa Wojtyla ridona alla cultura il grande compito di ricercare il senso ultimo dell’esistenza umana. Le varie culture non possono non aprirsi al trascendente, se vogliono essere veramente umane: e sono tutte rispettabili in quanto tentativi di risposta alla domanda di senso. Pertanto non c’è spazio per il pessimismo o il nichilismo, frutti di una cultura cinica e utilitaristica che riducendo l’uomo a mezzo, distrugge alle fondamenta la dignità umana, si nutre di violenza e rende schiavo l’uomo della sua stessa paura.
La speranza invece, illuminata e rivelata dalla fede cristiana, ha un futuro: “Possiamo costruire nel secolo che sta per giungere e per il prossimo millennio una civiltà degna della persona umana, una vera cultura della libertà. Possiamo e dobbiamo farlo! E, facendolo, potremo renderci conto che le lacrime di questo secolo hanno preparato il terreno ad una nuova primavera dello spirito umano” (Discorso di Giovanni Paolo II all’ONU, il 5 ottobre 1995, n. 18).
“Dove andiamo? – si chiedeva il poeta tedesco Novalis. Tutti a casa!”. Tutta la più autentica cultura del Novecento, segnata profondamente dalla malattia del nichilismo, anela al ritorno del Padre. Non sa più trovarlo, è vero; ma ha ricominciato a cercarlo. A tentoni, a fatica, ma lo cerca. Perché ha capito che senza un Padre il cielo è un buco nero che divora i valori e sulla terra c’è posto solo per gli idoli, si chiamino essi Politica, Stato, Profitto, Progresso, Nazione, Razza. E gli idoli, si sa, esigono cruenti sacrifici umani. I loro templi si trovano ad Auschwitz, Hiroshima, Sarajevo. Siamo stati delusi dalle ideologie, ingannati dalle menzogne che ci hanno propinate. Siamo orfani del Padre. Ne sentiamo la mancanza. E’ tempo per riaprire le pratiche per l’adozione a figli. Siamo stanchi delle carrube rubate ai porci. Bisogna rialzarsi e riprendere la strada del ritorno a casa. Prima che il nulla ci divori. Per scoprire, con gioia inaudita, che il Padre sta già scendendo da lassù per venirci incontro.
Venite e vedrete (Gv 1, 39). Con questi due verbi, Gesù indica sinteticamente e lapidariamente il cammino ai discepoli che gli avevano chiesto: “Dove abiti?”. Il brano evangelico non dice: “venite a vedere”, vi indico un punto preciso spaziale dove avrà fine il vostro cammino; e neanche: “venite e vedete”, come se il cammino sia di per sé già una risposta; ma: “venite e vedrete”: il vedere è futuro rispetto al venire; è una promessa, di cui fidarsi, mettendo a rischio la propria vita. Per scoprire dove abita la speranza dell’uomo occorre certo “mettersi in cammino”, cioè progettare la vita sul campo, perché la vita la si impara vivendo, ma bisogna essere nel contempo capaci di “vedere”, cioè di trapassare con lo sguardo la superficie fenomenica delle cose. Discepoli contemplativi, semplici come le colombe, con nel cuore un grande sogno, ma anche astuti come i serpenti, col realismo concreto di chi è itinerante sulle strade polverose del terzo millennio. “Andarono e videro dove stava e quel giorno stettero presso di lui”. L’evangelista non precisa il luogo. Se «il Figlio dell’uomo non ha dove reclinare il capo» (Mt8, 20), chi vuole trovare la Casa dove sta Dio deve rinunciare ad una casa. È il paradosso evangelico del perdersi per ritrovarsi: Gesù ci insegna che se vuoi essere come Dio devi rinunciare ad esserlo. E devi saper vedere Dio nella sua sconvolgente umanità. In tal modo ti liberi per sempre del peccato originale. È questa la buona notizia che i laici di AC, itineranti sulle strade del terzo millennio, devono saper portare agli uomini.
Giacomo Belvedere