“La strada è lunga, ma non esiste che un solo mezzo per sapere dove può condurre, proseguire il cammino” (Don Tonino Bello) …“proseguire il cammino” non per ricominciare da capo ma per… “educare ancora”, che come ci ricorda il Cardinale Martini, è la necessità che si impone di fronte all’oggi.
INTRODUZIONE
Ciò che mi accingo a fare è condividere con voi una riflessione, supportata dallo studio di contributi e autori autorevoli, che nasce innanzitutto da una chiamata: la chiamata alla responsabilità di educare. Chiamare manifesta in chi chiama la volontà di stabilire un rapporto, di aprire un nuovo canale di dialogo: quando abbiamo rotto con qualcuno, diciamo infatti “non ti voglio sentire più…non mi chiamare più…scordati il mio nome”. Chiamare qualcuno per nome è farlo “essere” per me. Avere un nome è poter essere per una società ed essere riconosciuto. Il Vangelo usa il nome proprio per i discepoli, per gli altri usa “un tale”. Strettamente collegato al chiamare è il rispondere: si chiama per avere una risposta anche sapendo in partenza che “risposta non c’è”, perché non c’è nessuno, o si crede che non ci sia nessuno, in grado di darla. Ma anche questa è una risposta. Perché si risponde sempre anche quando facciamo finta di non aver
sentito (tacere, negarsi sono modi di rispondere, sbattere una porta alle spalle uscendo è un modo di rispondere, tenere spento il cellulare è un modo di rispondere…).
Probabilmente rispetto all’educazione, molti oggi peccano su questo aspetto: il non rispondere. La difficoltà nel “rispondere” sta nel fatto che è faticoso, soprattutto quando a chiamare sono coloro che possono vantare qualche diritto su di noi: un padre, una madre, un marito, un fidanzato, un figlio, un capo, Dio. Così il rispondere può rivelarsi penoso, perché si viene chiamati a rendere ragione del proprio comportamento, di impegni presi e non mantenuti, di parole dette e che ci siamo dimenticati.
Il “rispondere” è direttamente collegato con la “responsabilità” che è definita proprio come capacità di rispondere.
Non possiamo pensare all’educazione nell’ottica del “salviamo il salvabile” o “corriamo ai ripari”, Gibran scriveva che “la vita non è una questione di come sopravvivere alla tempesta, ma di come danzare nella pioggia”! Allora è necessario ripensare alla chiamata alla responsabilità di educare e questo vuol dire in prima analisi essere in grado di elaborare dei percorsi che ci permettano di “danzare nella pioggia” e interpretare il nostro tempo. “Proprio per questo”, osservano Savagnone e Briguglia, “è più appropriato parlare di sfida più che di emergenza”.
LA SFIDA EDUCATIVA
Il termine sfida mi richiama alla mente un invito a gareggiare, a competere attraverso norme fisse oppure stabilite di volta in volta in cui, un singolo o un gruppo si affrontano per ottenere il miglior risultato.
Credo che la sfida prioritaria per la quale tutti noi siamo invitati a gareggiare, è quella di prendere coscienza di questo bisogno che a vari livelli e con linguaggi diversi, ci viene sottoposto dalle giovani generazioni: «di fronte a chi ha la tentazione di guardare solo vicino, all’immediato, l’educazione insegna a guardare lontano», ci ricorda Franco Miano. E questo guardare lontano ci suggerisce anche un secondo aspetto di questa sfida: l’importanza di curare ed esercitare la nostra “creatività” e capacità di “far nuove tutte le cose” che riguardano l’educazione, alla luce dell’oggi della storia, nel quale dobbiamo sforzarci di cogliere ciò che è veramente essenziale per distinguerlo da ciò che non lo è.
Entro quale contesto si colloca tale sfida?
«Oggi…ogni opera di educazione sembra diventare sempre più ardua e precaria. Si parla…della difficoltà che s’incontra nel trasmettere alle nuove generazioni i valori-base dell’esistenza e di un retto comportamento, difficoltà che coinvolge sia la scuola che la famiglia e si può dire ogni altro organismo che si prefigga scopi educativi». Da queste parole – pronunciate l’11 giugno 2007 da Benedetto XVI durante il convegno annuale della diocesi di Roma e ribadite il 10 gennaio 2008 in occasione dell’incontro con gli amministratori degli Enti locali del Lazio – si da avvio ad un ampio e diffuso fremito culturale che ha via via posto attenzione a comportamenti problematici, episodi di bullismo nelle scuole, fatti di violenza nelle città, che hanno chiaramente messo in evidenza un
disagio giovanile che Umberto Galimberti fa risalire ad un vuoto interiore da lui definito “ospite inquietante”.
Spostando l’attenzione poi, sul punto di vista dei giovani, anche crescere risulta difficile: da un lato desiderano diventare grandi ed imitano gli adulti, dall’altro tendono a rimanere piccoli per paura di avventurarsi nell’esplorazione di un nuovo mondo che li attrae e contemporaneamente li spaventa, un po’ come Cappuccetto Rosso dinanzi al bosco. «Ma oggi Cappuccetto Rosso», scrive Paola Bignardi nel suo libro Il senso dell’educare, «si spinge nel bosco spesso senza i consigli della mamma e forse senza sapere né se sta andando dalla nonna, né quale sia la strada che conduce alla sua casa». Oggi si cresce senza punti di riferimento e i messaggi che si ricevono dai genitori sono spesso in contrasto con quelli che provengono dalla scuola, dai media, dagli amici e dalle loro rispettive famiglie. Ciò genera conflitto e disorientamento: pensiamo a quando i ragazzi reclamano “le regole dei loro amici” rispetto all’orario di rientro a casa. Tale disorientamento si acuisce in coloro che hanno alle spalle “famiglie deboli” (per via di separazioni, disagio sociale ecc.) dove risultano carenti le prospettive che attraggono e invitano a guardare al futuro e di conseguenza si assumono obiettivi inconsistenti che portano talvolta anche ad uccidere per noia o per ricevere popolarità.
Ma queste difficoltà e questi smarrimenti, forse sono la propaggine di quelle di noi adulti che spesso fatichiamo perché non abbiamo molto da dire e sperimentiamo il limite del comunicare orientamenti che siamo i primi a non avere e così, ce lo ricorda il Papa nella sopracitata lettera, «è forte certamente, sia tra i genitori che tra gli insegnanti e in genere tra gli educatori, la tentazione di rinunciare, e ancor prima il rischio di non comprendere nemmeno quale sia il loro ruolo, o meglio la missione ad essi affidata. In realtà, sono in questione non soltanto le responsabilità personali degli adulti o dei giovani, che pur esistono e non devono essere nascoste, ma anche un’atmosfera diffusa, una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita. Diventa difficile, allora, trasmettere da una generazione all’altra qualcosa di valido e di certo, regole di comportamento, obiettivi credibili intorno ai quali costruire la propria vita».
Savagnone e Briguglia mettono dunque in evidenza che non è certo tutta colpa degli adulti, ma sono venute meno le condizioni che rendono realizzabile e ricco di senso l’impegno educativo e ciò è dovuto anche allo spaesamento degli adulti dinanzi alla rivoluzione nel campo della comunicazione che ha reso tutto possibile e ogni cosa accessibile, ha permesso di superare i confini fisici permettendo di essere e stare “dove”, “quando” e “con chi” si vuole” e di considerare la possibilità che anche le scelte siano reversibili. Tutto ciò non fa che incrementare la nascita di nuove forme di esclusione sociale unitamente allo sfasamento del tempo di crescita rispetto alla maturazione biologica, psicologica e sociale: mentre la maturazione biologica e quella sessuale risultano essere precoci, quella psicologica si allontana nel tempo e quella sociale risulta disomogenea (come consumatori si diventa adulti già a 6 anni, come lavoratori non prima dei 35-40 anni).
L’alternativa a tale “spaesato sfasamento” è un dialogo tra le generazioni che implichi lo sforzo di mettersi in discussione ed individuare ciò che veramente conta. In questo dialogo, Savagnone e Briguglia evidenziano che gli adulti devono mantenere un’apertura intelligente ad una serie di nuovi valori verso cui i giovani sono particolarmente sensibili e attraverso i quali è necessario passare per incontrarli: libertà individuale, attenzione alla corporeità, riscoperta del piacere
come elemento costitutivo della vita umana, rispetto dell’ambiente, primato dell’amicizia.
Sicuramente famiglia, scuola e parrocchia sono in questo contesto scavalcate dai mezzi di comunicazione sociale: in primis la televisione che oggi, come sosteneva Joshua Meyrowitz, «trasporta i bambini attraverso il globo, prima ancora che abbiano il permesso di attraversare la strada». Senza alcun intento demolitorio, possiamo però considerare un dato di fatto che, l’introduzione della logica del profitto da parte della tv privata e adottata poi anche da quella pubblica, ha portato in primo piano il problema della pubblicità, e di conseguenza, dell’audience. «E’ diventato essenziale» proseguono Savagnone e Briguglia, «attirare il pubblico, solleticando le sue preferenze e i suoi istinti senza riguardo alla qualità etica ed estetica…In questo contesto, anche uno strumento che di per sé può essere prezioso quanto la Tv, quale Internet, finisce spesso per essere utilizzato da molti giovani in modo inappropriato e, dal punto di vista educativo, devastante. Invece di arricchire a dismisura il campo delle opportunità di informazione e di comunicazione, si trasforma in un passatempo fatuo, e in qualche caso addirittura pericoloso, che esonera da un effettivo rapporto con la realtà e banalizza i rapporti umani».
In tale orizzonte siamo chiamati in prima persona, come educatori, a praticare, contestualizzare e integrare i media digitali, al fine di rispondere all’esigenza di accompagnare ed educare anche i ragazzi «alla conoscenza di questi mezzi e dei loro linguaggi e a una più diffusa competenza» che ne favorisca un uso maggiormente consapevole, poiché «il modo di usarli è il fattore che decide quale valenza morale possano avere» (cfr. Educare alla vita buona del Vangelo n. 51): un videogioco infatti, può essere un’esperienza estraniante o uno straordinario modo per esercitare la capacità di problem solving dei ragazzi. Per far si che le potenzialità di questi mezzi siano un reale valore aggiunto anche nel nostro servizio educativo, non possiamo prescindere dalla volontà, dallo sforzo, dalla fatica, dall’impegno di ascoltare i ragazzi ed entrare in una relazione, nella quale allestire uno spazio in cui possa avvenire un incontro autentico di accoglienza e sia possibile donare all’altro qualcosa che ho ricevuto e che ritengo abbia un valore, comunicare quella Verità che mi ha toccato, che sempre mi supera ma di cui posso e devo testimoniare ciò che sono riuscito a cogliere.
Tutto questo implica però come evidenziano Savagnone e Briguglia, la necessità di educare gli educatori ovvero di aiutarli a recuperare la motivazione e la passione di educare nella consapevolezza però che non si può educare a qualcosa che non si vive in prima persona, non si può educare senza una lettura sincera di se stessi e dei propri valori di riferimento: crediamo realmente ad essi oppure ne siamo convinti solo quando proviamo a trasmetterli ai ragazzi?
E’ sicuramente un lavoro ingombrante e a tratti anche doloroso perchè mette allo scoperto i nostri vuoti e i nostri dubbi «ma meno che sentirseli sbattere in faccia, spietatamente, dai giovani a cui ci si rivolge».
E’ necessario allora operare un discernimento bidimensionale: nei confronti del nuovo per individuare e valorizzare gli elementi positivi; «lasciarsi educare dalle situazioni (e, indirettamente, dai giovani a cui si rivolge)», fino a sperimentarne la stessa meraviglia e lo stesso entusiasmo che si spera di suscitare in coloro a cui si rivolge il servizio. Discernimento nei confronti delle convinzioni di partenza selezionando in maniera accurata i comportamenti e i valori effettivamente irrinunciabili da quelli che sono legati a contesti sociali ormai tramontati. Questi due processi (apertura al nuovo realmente valido e abbandono al vecchio quando non è più valido) non sono legati all’istantaneità ma alla speranza, ovvero a quell’apertura fiduciosa a
quel futuro diverso dall’oggi che certamente ci aspetta domani. Forse è un pensiero che non sempre teniamo presente a noi stessi, ma noi abbiamo a che fare con ragazzi che presumibilmente ci sopravviveranno e continueranno a costruire questo mondo dopo di noi, come educatori dobbiamo allora in definitiva recuperare secondo quanto affermano Savagnone e Briguglia, il coraggio di educare. Perché tutto questo? “Perché Tu, o Signore, mi hai educato, tu mi hai condotto fin qui: tu hai messo in me la gioia di educare” (C.M.Martini). Non è dunque solo affar mio… il Signore ha messo in me la gioia di educare…dunque è la Sua gioia che devo portare ed è per questo che non posso sottrarmi a questa sfida!
IL RUOLO DELL’EDUCATORE
Da più parti ci sentiamo ripetere una domanda che, alla luce del moltiplicarsi di episodi di cronaca legati ai giovani, forse non è poi tanto retorica: è ancora possibile educare? Secondo Savagnone e Briguglia è possibile a patto che gli educatori riconoscano e recuperino nel loro impegno educativo in famiglia, a scuola e nella comunità cristiana, le quattro dimensioni fondamentali della persona.
(Visione della scena finale del film di animazione Shrek )
Educare all’essere
Ovvero educare alla scoperta del proprio vero io, della propria vera identità; a portare alla luce e accettare il proprio volto che è “bellissimo” come dice Shrek (che bella una favola dove per una volta la principessa diventa un orco!) perchè ha “la forma dell’amore”.
Come educatori abbiamo dunque il compito di aiutare i ragazzi, i giovani in genere a valorizzare fino in fondo la propria autenticità, fino a rifiutare quell’immagine di se che non rispecchia il proprio vero volto. Educare all’essere vuol dire ancora aiutare i ragazzi ad assomigliare ai propri sogni, accettando le proprie miserie e anche quei “mostri” che a volte si risvegliano dentro di loro nella relazione con gli altri ma che spariscono quando si rendono conto che c’è qualcuno disposto ad accettarli così come sono.
(Visione della scena “i grandi re del passato” tratta dal film di animazione Il re leone )
Educare all’essere da
E’ possibile essere, solo riconoscendo il proprio essere da ovvero proveniente da una cultura, da una famiglia, da un padre, da una figura autorevole che ne impersoni la forza generatrice: ogni uomo nel suo presente è “interpellato…dalla parola del passato”. Educare all’essere da è quindi educare a valorizzare queste origini, ad averne cura, non per averne nostalgia ma per trovare in esse la “password” per accedere al presente e “cliccare l’invio” per il futuro. Affinché avvenga questo occorre imparare a raccontare la propria storia, per capire se stessi (sia come singoli che come appartenenti ad una comunità) e incrociare i desideri e le attese di quelle storie nell’oggi di ciascuno, per scoprire che le trame di quelle vite sono capaci di dire qualcosa anche alle nostre, perché come queste ultime esprimono qualità e limiti (pensiamo a Mufasa che ammette “anch’io ho avuto paura per te” e da allora a Simba questo padre sembra quasi più vicino, più “imitabile/raggiungibile”). Educare all’essere da è dunque, educare alla memoria di ciò da cui si proviene, all’attenzione a ciò che si sta vivendo e alla speranza in ciò che accadrà dopo con quell’atteggiamento di gratitudine per ciò che ci è stato donato fin’ora, per ciò che ci viene donato ora e per ciò che ci sarà donato domani.
(Visione della scena del “passaggio del Mar Rosso” del film di animazione Il principe d’Egitto )
Educare all’essere con
Come non si può essere se stessi senza una propria storia, non si può esserlo senza gli altri e senza assumersi la responsabilità del loro futuro e della condivisione del cammino che ci permette di riconoscere e arricchirci delle loro virtù e al contempo di vigilare e accompagnare le
loro fragilità (pensiamo all’immagine del film in cui vengono presi in braccio i bambini o viene sostenuta la vecchina). Educare all’essere con vuol dire allora educare alla cura dell’altro e a maturare questo senso di responsabilità nei suoi confronti, a perseguire insieme il bene comune. Per questo è necessario comunicare, avendo un intento comune e dando un nome alle cose poiché come osservano Savagnone e Briguglia, “il vocabolario di una persona indica l’ampiezza del suo mondo. Le cose per cui non abbiamo nomi non esistono per noi”. Affinché la comunicazione poi, ci permetta di entrare in una relazione autentica col volto dell’altro occorre darle spazio, ritagliarsi dei momenti di “sosta” in cui dare spazio alla condivisione delle parole ma anche al silenzio.
(Visione del trailer del film Into the wild )
Educare all’essere per
Ovvero alla tensione a dare un orientamento alla propria vita (il film rende bene questa fatica del protagonista), a sperare, gioire e soffrire nella consapevolezza che ogni scelta comporta un rischio ma che quest’ultimo è pur sempre affascinante. Educare all’essere per vuol dire accompagnare i ragazzi nel desiderare e costruire una vita piena, ispirata al rispetto piuttosto che all’avidità, allo stupore piuttosto che al calcolo. Ciò però è possibile protendendo sempre verso un Oltre, verso una relazione fondante che dia corpo e spessore a tutte le altre, avere cura di Dio e del nostro rapporto con Lui.
Cogliere la sfida educativa, significa dunque aver cura contemporaneamente di queste quattro dimensioni
CONCLUSIONI
Dinanzi a tali sfide e prospettive non possiamo certo accontentarci di “scalare dossi” ne tanto meno lasciarci intimorire dalle “altezze della vita” perché il Signore è lì pronto a garantirci tutto “l’equipaggiamento utile”!
L’educatore non può essere uno che si accontenta…è necessario allora che:
• punti in Alto fino e oltre le cime già raggiunte;
• sia capace di proporre a se stesso e agli altri mete chiare e alte, cammini percorribili belli, intensi e secondo il Vangelo;
• elevi il tono della sua vita personale, dell’associazione e dell’intera comunità cristiana per far sì che ciascuno…torni a vedere di nuovo.
Mi piace concludere queste nostre riflessioni con i versi di una canzone molto nota … è un po’ l’augurio che facciamo a ciascuno di noi … ovvero di poter ripetere col nostro servizio, queste parole, a ciascuno dei ragazzi che il Signore ci ha affidato, ci affida e ci affiderà …
SOGNA RAGAZZO SOGNA
(Roberto Vecchioni, 1999)
E ti diranno parole rosse come il sangue,
nere come la notte;
ma non è vero, ragazzo,
che la ragione sta sempre col più forte
io conosco poeti
che spostano i fiumi con il pensiero,
e naviganti infiniti
che sanno parlare con il cielo.
Chiudi gli occhi, ragazzo,
e credi solo a quel che vedi dentro
stringi i pugni, ragazzo,
non lasciargliela vinta neanche un momento
copri l’amore, ragazzo,
ma non nasconderlo sotto il mantello
a volte passa qualcuno,
a volte c’è qualcuno che deve vederlo.
Sogna, ragazzo sogna
quando sale il vento
nelle vie del cuore,
quando un uomo vive
per le sue parole
o non vive più;
sogna, ragazzo sogna,
non lasciarlo solo contro questo mondo
non lasciarlo andare sogna fino in fondo,
fallo pure te…
Sogna, ragazzo sogna
quando cade il vento ma non è finita
quando muore un uomo per la stessa vita
che sognavi tu
Sogna, ragazzo sogna
non cambiare un verso della tua canzone,
non lasciare un treno fermo alla stazione,
non fermarti tu…
Lasciali dire che al mondo
quelli come te perderanno sempre
perché hai già vinto, lo giuro,
e non ti possono fare più niente
passa ogni tanto la mano
su un viso di donna, passaci le dita
nessun regno è più grande
di questa piccola cosa che è la vita
E la vita è così forte
che attraversa i muri per farsi vedere
la vita è così vera
che sembra impossibile doverla lasciare
la vita è così grande
che quando sarai sul punto di morire,
pianterai un ulivo,
convinto ancora di vederlo fiorire
Sogna, ragazzo sogna,
quando lei si volta,
quando lei non torna,
quando il solo passo
che fermava il cuore
non lo senti più
sogna, ragazzo, sogna,
passeranno i giorni,
passerà l’amore,
passeran le notti,
finirà il dolore,
sarai sempre tu…
Sogna, ragazzo sogna,
piccolo ragazzo
nella mia memoria,
tante volte tanti
dentro questa storia:
non vi conto più;
sogna, ragazzo, sogna,
ti ho lasciato un foglio
sulla scrivania,
manca solo un verso
a quella poesia,
puoi finirla tu.
Che ciascuno di noi sia capace di lasciare questo voglio sulla “scrivania” dei noi ragazzi…
che ciascuno di noi sia capace di gustare la meraviglia di quella “poesia”…completata con la loro vita!
Auguri a tutti e a ciascuno!
Claudia D’Antoni
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