La ricerca di Dio inquieta da sempre il cuore dell’uomo. Inquietum cor nostrum donec requiescat in te! Ma la ricerca di per sé non è un valore: può condurre difatti a un vicolo cieco senza sbocco e disperdersi nei mille rivoli di un errare senza senso o, all’opposto, produrre gli esiti devastanti del fondamentalismo religioso. Il vangelo di Giovanni ci presenta un’icona della ricerca di Dio, articolata in un trittico: 1) la chiamata dei primi due discepoli (Gv 1, 35-39); 2) la disputa con i farisei al tempio durante la festa delle capanne (Gv 8, 13-30); 3) l’arresto di Gesù al Getsemani (Gv 18, 3-9). I tre brani sono legati dalla medesima parola chiave: cercare. Si tratta di un trittico in cui uno squarcio di luce illumina due zone d’ombra.
1. La ricerca che si apre all’incontro con Dio (Gv 1, 35-39).
Il brano della chiamata dei primi due discepoli ci dà la chiave per aprire la ricerca alla dimensione dell’incontro col Maestro. Gesù passa. I due discepoli sono invitati dal Battista a seguirlo. La mediazione del precursore aiuta i due a cogliere l’attimo del passaggio senza sprecarlo. Giovanni agisce da autentico educatore: non considera i due un suo possesso geloso, si fa da parte perché possano seguire la loro strada dietro Gesù. A questo punto la decisione spetta ai due. Di uno sappiamo il nome: è Andrea. L’evangelista tace il nome dell’altro. Può essere ognuno di noi. Sentendosi seguito, Gesù si volta, letteralmente: “si converte” verso i due. È questa la buona notizia: Dio si converte all’uomo in ricerca e gli apre la via per trovare una verità inaudita e insperata. L’uomo che cerca Dio con cuore sincero scopre di essere cercato. Che cercate? I due rispondono con un’altra domanda: Maestro, dove abiti? (lett.: dove stai?). Sempre in movimento e nomade, Israele non ha mai sperimentato ciò che significa “stare”, “rimanere”. Non dispone neppure di una parola che esprima esattamente questa idea. Bisogna attendere gli equivalenti greci per avere le nostre immagini familiari di casa, di stabilità, di permanenza. Destinato dalla sua storia ad una precarietà senza rimedio, Israele ha scoperto che solo Dio con la sua presenza permette agli uomini di “rimanere”. I due in fondo chiedono a Gesù se la loro ricerca è condannata ad un errare senza fine e senza meta, ad un nomadismo perenne o se c’è un “luogo”, una terra promessa, dove potersi fermare. Venite e vedrete. Non dice: “venite a vedere”, vi indico un punto preciso spaziale dove avrà fine il vostro cammino; e neanche: “venite e vedete”, come se il cammino sia di per sé già una risposta; ma: “venite e vedrete”: il vedere è futuro rispetto al venire; è una promessa, di cui fidarsi, mettendo a rischio la propria vita. Per scoprire dove abita la speranza dell’uomo occorre certo “mettersi in cammino”, cioè progettare la vita sul campo, perché la vita la si impara vivendo, ma bisogna essere nel contempo capaci di “vedere”, cioè di trapassare con lo sguardo la superficie fenomenica delle cose. Discepoli contemplativi, semplici come le colombe, con nel cuore un grande sogno, ma anche astuti come i serpenti, col realismo concreto di chi è itinerante sulle strade polverose del terzo millennio. Andarono e videro dove stava e quel giorno stettero presso di lui. L’evangelista non precisa il luogo. Se «il Figlio dell’uomo non ha dove reclinare il capo» (Mt 8, 20), chi vuole trovare la Casa dove sta Dio deve rinunciare ad una casa. È il paradosso evangelico del perdersi per ritrovarsi. Afferma M. Buber: «C’è qualcosa che tu non puoi trovare in alcuna parte del mondo, eppure esiste un luogo in cui la puoi trovare». Il Vangelo di Giovanni indica questo luogo: «E venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14). Ecco ciò che conta in ultima analisi: lasciar entrare Dio nella nostra casa. Se ci lasciamo trapassare dallo sguardo di Dio, prepariamo a Dio una dimora nel nostro luogo più intimo: in interiore homine habitat veritas. La nostra ricerca non avrà mai fine, ma acquisterà un fine: l’ulteriorità di Dio verrà ad abitare la nostra interiorità. È questa la grande scommessa di Dio con l’uomo.
2. La ricerca fallimentare fine a sé stessa (Gv 8, 13-30).
C’è il rischio tuttavia che la ricerca non approdi ad alcunché. Perché, nella partnership con Dio, all’uomo spetta mettere in gioco la propria libertà. La ricerca allora può essere fallimentare. C’è difatti una ricerca che “giudica secondo la carne” che si ferma al dato fenomenico e non riesce ad andare “oltre”. In questo secondo quadro del trittico non vi sono mediatori, perché la ricerca che si chiude nel proprio soggettivismo autistico rifiuta la mediazione educativa. Si pongono delle domande (Dov’è tuo padre? Tu chi sei?), ma le si lasciano cadere nel vuoto come domande insensate quando ci si accorge che la risposta non può essere data dall’evidenza empirica dei sensi. Ma Gesù è categorico: Io vado e voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato. Dove io vado, voi non potete venire. Se si vola basso, prigionieri della dimensione orizzontale-immanente, di un sapere autoreferenziale appiattito sulla propria fragilità come unico dato sperimentabile, se ci si accontenta dell’autenticità e veracità rinunziando alla verità, non si incontra l’Io sono di Dio. Si cerca senza sapere cosa cercare e perché. Senza avere il coraggio di andare oltre il dato sensibile. Si enfatizza la ricerca come valore a sé stante, senza uscire dal cerchio chiuso della morte, che impedisce di seguire il maestro. Non si trova Dio perché ci si ostina a volerlo vedere hic et nunc. Agli uomini prigionieri di un presente senza storia è precluso il futuro della scommessa della fede. La promessa di Dio: Venite e vedrete, non sortisce alcun effetto. Tuttavia l’evangelista annota, a conclusione dell’episodio, che molti credettero in lui. Anche nel buio del pragmatismo e nichilismo moderno c’è spazio per l’incontro.
3. La ricerca presuntuosa che sa già le risposte (Gv 18, 3-9).
La paura della propria fragilità umana, la fatica del cammino, possono indurre a cercare scorciatoie facili per sfuggire all’insicurezza morale e al debolismo del pensiero. La scoperta dell’insostenibile leggerezza dell’essere produce per contrasto la via dell’ideologizzazione della fede. La domanda che cercate? risuona simile nel Getsemani: chi cercate? Anche in questo caso Dio va incontro all’uomo e lo interpella, ma non si produce l’incontro. Là il precursore ha indicato la via; qui il traditore. La mediazione di Giuda non è quella dell’educatore che si fa da parte, ma quella di chi vuole consegnare Dio ai meschini desideri di potenza e grandezza dell’uomo. Nel terzo quadro del trittico l’uomo non fa domande: sa già le risposte, ha le sue certezze incrollabili. Non domandano a Gesù: dove abiti?, perché sanno chi cercare: Gesù il Nazareno. Il Nazareno non può che abitare a Nazaret. La ricerca è finita in partenza. Non sono venuti a seguire il Maestro, sono venuti a catturarlo. Più che cercatori di Dio sono i suoi cacciatori. Vogliono prenderlo in trappola e portarlo dove vogliono. Li muove una fede ideologizzata, fanatica e fondamentalista, che ha già le risposte pronte, che cerca per prendere ma non si lascia cercare. Non ama la reciprocità dell’amore. Presuntuosa ed arrogante si illude di com-prendere Dio, fabbricandosene uno minore a misura dell’uomo e del suo egoismo, un dio che salva sé stesso, il suo gruppo, il suo partito, la sua razza, etc. Un dio padrino-padrone di una cricca di privilegiati. Non l’Emanuele, il Dio con noi biblico, ma il Gott mit uns, scritto come una bestemmia sulle fibbie dei cinturoni delle SS naziste. I talebani di ogni credo sono incapaci di incontrare Dio, perché pensano di ucciderlo e seppellirlo sotto la loro supponente ideologia. Così facendo, uccidono anche l’uomo. Per questo la rivelazione del nome di Dio: Sono io!, li ricaccia indietro. Dio non si lascia assimilare ed addomesticare. E soprattutto respinge con forza ogni tentazione di ridurlo ad un fantoccio ideologico.
Dalla ricerca all’incontro: l’ora decima (Gv 20, 11-18).
Sia per i “cercatori secondo la carne” sia per i “cacciatori di Dio” non scatta l’ora decima (e difatti l’evangelista non l’annota). Secondo alcuni calcoli apocalittici, il decimo secolo, il decimo periodo era il periodo conclusivo. L’ora decima nella Bibbia è dunque l’ora della pienezza dei tempi, ora apocalittica dell’escaton e del compimento, quando il kairòs, il momento verticale della grazia divina, incrocia il kronos orizzontale umano. Senza l’ora decima, il tempo rimane un demone insensato che divora sé stesso, un assurdo passare dal non essere più al non essere ancora. Non avviene l’incontro con Gesù quando non ci si lascia trapassare dal suo sguardo. Ma laddove si ha l’incontro tra la verticalità e l’orizzontalità, la trascendenza e l’immanenza, Dio e l’uomo, si apre lo spazio al tempo liberato dalla morte, alla memoria ed alla speranza, all’esperienza ed al progetto, al ricordo ed alla promessa. L’Io sono di Dio non respinge l’uomo ma lo fa rinascere e lo solleva dalla sua precarietà, donandogli una vita piena di senso. Cristo è la Via che abita le nostre vie tortuose e ambigue; la Verità che abita le nostre verità parziali e deboli; la Vita che abita le nostre vite fragili e mortali. Donna, perché piangi? Chi cerchi? (Gv 20,15): Gesù premia l’ostinazione di Maria Maddalena, che rimane presso il sepolcro, nonostante tutto le dica che il suo sogno di salvezza si è infranto miseramente sulla croce. La Maddalena non ha cessato di cercare Gesù. Anche lei, come i discepoli non ha capito la Scrittura, ma in cuor suo non si è arresa alla logica del mondo, al realismo disilluso, al pragmatismo che tutto misura col metro dell’utile e del successo. Per questo ascolta la voce del Maestro che la chiama per nome: Maria! Ed è capace di “voltarsi, di convertirsi cioè allo straordinario e inaudito evento della Resurrezione, che fa irrompere nella storia degli uomini l’ora decima della penezza dei tempi, l’ora in cui Dio incontra la ricerca dell’uomo, aprendola alla prospettiva dell’eternità.
Giacomo Belvedere