1. «La crisi, che ha colpito il cristianesimo europeo, non è primariamente o almeno esclusivamente una crisi ecclesiale… È più profonda:… è divenuta una crisi di Dio. Schematicamente si potrebbe dire: religione, sì, Dio, no, ove questo no a sua volta non è inteso nel senso categorico dei grandi ateismi. Non esistono più grandi ateismi… Anche la Chiesa ha una sua concezione della immunizzazione contro le crisi di Dio. Essa non parla più oggi… di Dio, ma soltanto… del Dio annunciato per mezzo della Chiesa. La crisi di Dio viene cifrata ecclesiologicamente». Con queste parole Johann Baptist Metz si è congedato nel 1993 dal suo insegnamento universitario a Münster. «Parole del genere dalla bocca del creatore della teologia politica – commenta il card. Ratzinger, che ricorda questo testo – devono rendere attenti».
Forse oggi è giunto il tempo in cui dobbiamo chiederci se sia possibile parlare, in termini analoghi, anche di una crisi dell’uomo, come esito di un processo in cui sembra chiudersi la stagione dell’antropocentrismo moderno e aprirsi una stagione nuova . Una traslitterazione antropologica potrebbe all’incirca suonare così: “La crisi, che ha colpito l’umanesimo europeo, non è primariamente una crisi culturale. Schematicamente, si potrebbe dire: individui, sì, persona, no, ove questo non è inteso nel senso dei grandi naturalismi. Anche la cultura ha una sua concezione della immunizzazione contro le crisi dell’idea di persona. Essa non parla più oggi di persona umana, ma soltanto di vissuto individuale descritto con metodi empirici per mezzo delle scienze naturali (o raccontato con metodi analitico-ermeneutici per mezzo delle scienze umane). La crisi della persona umana viene cifrata culturalmente”.
Se le cose stanno in questi termini, la tesi che Jacques Maritain poneva all’inizio di Umanesimo integrale, facendola risalire ad Aristotele («Proporre all’uomo soltanto l’umano… è tradire l’uomo e volere la sua infelicità» ), dovrebbe essere preceduta da una domanda preliminare: è forse possibile invocare un orizzonte “soltanto umano”, se smettiamo di chiederci chi è l’uomo? Proseguendo in questo parallelismo, volutamente provocatorio, si potrebbe aggiungere: come la Chiesa non può illudersi di supplire ad un “meno di fede” con un “più di religione”, riducendosi ad un’agenzia simbolica del sacro, con equivoche funzioni di collante civile, allo stesso modo la cultura odierna non può illudersi di esorcizzare il fascino ambiguo del postumano, compensando il deficit di sintesi antropologica con un eccesso di analisi settoriali, formalmente ineccepibili e sostanzialmente evasive, incapaci di fronteggiare la crisi di identità di un io ipertrofico e spaesato .
Il duplice smarrimento di un “soggetto immenso” non può lasciare indifferenti quanti vedono proprio in questo paradossale punto di tangenza di finito e infinito le radici di una sproporzione originaria, in cui si riassume lo statuto irriducibile dell’umano “non-soltanto-umano”. Solo obliterando questa non coincidenza del sé con se stesso, rispetto ad una finitezza stabilizzata e compiuta, la proiezione infinita della persona può essere estromessa dall’edificio antropologico come un corpo estraneo, figlio di un’epoca ormai tramontata di grandi cattedrali. Nei confronti di quegli anacronistici “abusivismi edilizi”, ormai condonati per il loro valore storico-artistico, non si può più continuare a rivendicare sfrontatamente attestati di pubblica abitabilità.
La possibilità di accreditare un’interpretazione personale dell’umano, che possa respingere le opposte tentazioni dell’antropocentrismo e del riduzionismo biocentrico, ci aiuta ad identificare quella soglia critica decisiva, attorno alla quale si consuma il travaglio più profondo della nostra civiltà. Qui una cultura della disseminazione (peraltro ricca di opportunità per riabilitare una visione non antropocentrica dell’umano) manifesta anche il suo potenziale antropologicamente eversivo, se si fa complice di un’equivoca alleanza tra atomismo epistemologico e atomismo sociale, in nome di un divide et impera, che può diventare la forma diabolica del postmoderno.
Provando a ricollocare questi interrogativi nella prospettiva del Progetto culturale, appare prioritario rimettere al centro della questione antropologica il tema dell’unità, integralità e dignità della persona umana, come orizzonte ontologico capace di ispirare un’idea di umanità aperta e inclusiva: «Non il collettivo di tutti gli uomini, – per dirla con Ricoeur – ma la qualità umana dell’uomo; non l’esauriente enumerazione degli individui umani, ma il significato comprensivo dell’umano» .
2. La “Lettera ai fedeli laici”, che i vescovi ci hanno consegnato, invita a misurarsi con la triplice fragilità che oggi investe le relazioni della persona con se stessa, con le altre persone e con il creato, come ambiti non estranei all’incontro con il Risorto (Fare di Cristo il cuore del mondo, nn. 12-15). Anche gli effetti di questo processo di destrutturazione antropologica possono essere colti in questa triplice intersezione, come risultato di un progressivo affrancamento da qualsiasi debito vincolante dell’io nei confronti se stesso, degli altri e della natura, in cui si esprime l’apertura relazionale infinita della persona umana.
Questo fenomeno si tocca con mano anzitutto nella fragilità della relazione di sé con se stesso, che stenta a ricomporre in un ordine integrato e solidale del vissuto il corpo e la salute, la sessualità e gli affetti, l’intelligenza e la volontà. Nella proliferazione incontrollata di pulsioni libertarie, che peraltro convivono con il severo monito deterministico delle scienze cognitive, è occultata la profondità spirituale e responsabile della persona, in cui s’incontrano la finitezza di una vita che non ci siamo dati e l’altezza di una coscienza che non riesce a coincidere con se stessa.
Nell’ambito delle relazioni interumane, questo fenomeno si manifesta nella divaricazione quasi schizofrenica tra l’ambito dei “rapporti corti”, dove la rivalsa degli affetti ha ereditato e monopolizzare la bandiera illuministica dei diritti umani, e l’ambito dei “rapporti lunghi”, dove solo un’impersonale ragione calcolante appare abilitata a fronteggiare complessità, globalizzazione e multiculturalismo. Qui l’equilibrio antropologico è messo a dura prova: da un lato il tessuto microsociale di relazioni a “geometria variabile” sembra disposto a riconoscere solo un principio di gratificazione immediata; da un altro lato il sospetto di inautenticità che grava sull’orizzonte lontano finisce per abbandonarlo a forme di contrattualismo cinico e disincantato, declassando la rete delle mediazioni istituzionali di cui vive e si alimenta ogni ethos condiviso.
Gli effetti di questo dislivello relazionale si manifestano nella difficoltà a riconoscere il “valore aggiunto” del bene comune, rispetto alla somma degli interessi (o peggio, degli egoismi) individuali; un valore aggiunto che nasce unicamente dal riconoscimento di un legame partecipativo che precede le scelte individuali e le rende concretamente possibili. Il solvente postmoderno nei confronti della nozione di bene comune sembra invece radicalizzare il modello di una società troppo “facoltativa” e “slegata”, per non generare effetti preoccupanti di anomia e di disgregazione sociale; quello che è accaduto a New Orleans e a Parigi (sia pure in forme diverse e sulla base di fattori diversi) lo attesta: quando l’individuo non riconosce più vincoli liberanti di ordine partecipativo, basta che il tasso di controllo esterno si abbassi di poco perché la giungla riemerga improvvisamente in forme devastanti.
La medesima esitazione antropologica si riflette infine anche nell’idea di natura, soggetta ad un progressivo depauperamento semantico, che va di pari passo con il rafforzarsi di una razionalità strumentale, senza il contrappeso critico di un’intelligenza che tiene a distanza le lusinghe strumentali e sa interrogarsi intorno al senso e ai fini. L’esito di questa riduzione del mondo naturale ad un laboratorio neutro di risorse e di energie (cui corrisponde, in termini teologici, l’opacizzazione dello splendore sacramentale del creato), era già stato provocatoriamente preannunciato da Kierkegaard: «Ficco il dito nella vita – ma non sa di niente. Dove sto? Che cosa vuol dire: il mondo?» . Nasce da qui «l’idea del mondo come costituito d’atomi senza peso» , che ci condanna ad affacciarci con “un secchio vuoto” sulla soglia del nuovo millennio, «senza speranza di trovarvi nulla di più di quello che saremo capaci di portarvi» .
La riprova è nel sovrapporsi di idee incoerenti e persino contraddittorie di natura, frutto di attribuzioni di senso utilitaristiche e funzionali: per un verso l’emergenza ambientale (con macroscopiche differenze interne ) spinge ad attribuire valore intrinseco a “pezzi di natura” che minacciano l’equilibrio instabile della biosfera, invocando di conseguenza etiche inflessibilmente normative, che pretendono di sopravanzare l’autonomia dei singoli e persino degli Stati; per altro verso nell’orizzonte vicino, in nome di una equivoca assolutizzazione del principio di autonomia, si tende a dequalificare il valore intrinseco della vita umana allo stato nascente, terminale o comunque difettivo, assegnando alla bioetica, nel segno di un soggettivismo etico privo di credibilità normativa, il compito di gestire i conflitti pubblici sulla base di un precario contrattualismo.
L’insieme di tali fenomeni di sgretolamento relazionale sembra confluire nel compito sempre più arduo di composizione civile della convivenza multiculturale, che ci s’illude di poter schivare sterilizzando la rete dei legami condivisi. Ad una razionalità troppo debole per arbitrare i conflitti in nome di una qualche intenzionalità veritativa non resta che fare continui passi indietro, abbandonando ogni forma di legittimo pluralismo ad una regressione relativistica e lasciando che la rivendicazione dei diritti, ormai discesa dal cielo di un universalismo egualitario, si rinchiuda nella difesa corporativa di appartenenze particolari.
In tale contesto crescono contemporaneamente due tendenze opposte: da un lato un impetuoso risveglio identitario, veicolato da forme di irrigidimento fondamentalista; dall’altro una deriva libertaria, che tende a legittimare unicamente l’autonoma affermazione di legami volontari . La spostamento di porzioni sempre più estese di ethos condiviso nel paniere delle opzioni individuali inietta in un organismo delicato e vulnerabile come la nostra società, sul cui equilibrio è chiamata a vigilare la Carta costituzionale (alla quale i cattolici hanno dato un contributo non secondario), dosi sempre più massicce di un virus libertario che, oltre uno certo livello, possono indurre un fenomeno di overdose che sarebbe letale per tutti.
Riesce peraltro francamente difficile conciliare la rigida intransigenza con cui si cerca di innalzare una barriera impenetrabile di fronte ai cosiddetti “organismi geneticamente modificati” (OGM) e nello stesso tempo la disinvoltura con cui si accetta il trapianto nel vissuto collettivo di “organismi sociali geneticamente modificati” (OSGM?), prefigurando una loro sostanziale omologazione giuridica rispetto allo statuto di “società naturale”, che la nostra Costituzione riconosce alla famiglia fondata sul matrimonio. “Se tu non vuoi, perché devi impedire che io possa?”: questo sembra essere, in ultima analisi, il dogma essenziale del credo libertario, nei confronti del quale è legittimo chiedersi se si tratti veramente di un assioma indolore o se, al contrario, non debba essere considerato come un vero e proprio teorema, che impone a chi lo difende l’onere della prova.
La radicalità di questa deriva è confermata dal suo carattere pervasivo, che precede e attraversa l’intero arco delle diverse opzioni politiche. Proviamo a dirlo, in modo non sospetto, in riferimento ad un contesto diverso da quello italiano: da un lato, ha rilevato Taylor, «i conservatori di destra (nel senso americano) parlano come difensori delle comunità tradizionali quando attaccano la libertà di aborto e la pornografia; ma in politica economica invocano una forma “selvaggia” d’iniziativa capitalistica che più di ogni altra cosa ha contribuito alla dissoluzione delle comunità storiche, che ha incoraggiato l’atomismo, che non conosce né frontiere né vincoli di fedeltà… Nell’altro campo, – egli aggiunge – troviamo fautori di uno scrupoloso rispetto della natura, gente che si farebbe ammazzare per difendere l’habitat forestale, manifestare in favore della libertà di aborto, per la ragione che la donna è l’unica padrona del proprio corpo. Sulla via dell’individualismo possessivo, alcuni avversari del capitalismo selvaggio si spingono più avanti dei suoi più disinvolti difensori». In questo scontro, «le fonti morali sono occultate e rese invisibili», poiché «le parti contrapposte… sono legate da un’inconsapevole congiura il cui effetto è di mantenere celato alla vista qualcosa di essenziale» . Alla radice di questa “inconsapevole congiura”, che cela alla vista “qualcosa di essenziale”, s’intravede un atto di autoaffermazione, con cui l’io vorrebbe ergersi a fondamento e origine di se stesso, trasformando l’intero universo delle fonti morali, che sono il criterio vincolante e sensato di giudizio delle nostre scelte, in semplice oggetto di una scelta possibile.
3. Possiamo forse prescindere da queste domande così radicali e impegnative, nell’interrogarci intorno al contributo da offrire al futuro del Paese? Uno dei compiti che abbiamo davanti nasce proprio dalla possibilità di riconoscere la reciproca implicazione delle due grandi domande intorno a Dio e intorno all’uomo, rifiutando di sdoppiarle come espressione di due universi ormai troppo lontani e incommensurabili : da un lato il servizio pastorale, che considera il confronto con la cultura come un aggravio inessenziale sulle spalle sempre troppo fragili di una comunità che dovrebbe unicamente parlare di Dio; da un altro lato, l’universo complesso e sfuggente del confronto culturale, in cui è già molto se si riesce a dilatare gli spazi dell’intelligenza e a censire le forme significative del vissuto.
Alla radice dell’incontro salvifico fra le persone divine (che il mistero trinitario annuncia nella forma di una comunione assoluta) e la persona umana è come custodita la cifra di una “reciprocità asimmetrica” che promette un futuro all’attrazione infinita della felicità e insieme illumina l’enigma del fragile e il dramma della caduta. La memoria della “patria trinitaria”, da cui il termine “persona” ha conosciuto la sua gloriosa emigrazione filosofica, dice di un “essere in senso vero, ma non in senso pieno” (E. Mounier), ontologicamente identificato da uno statuto relazionale, se è vero che «nella sua natura profonda l’io è sempre collegato al tu e viceversa: una relazione autentica che diviene “comunicazione” non può nascere che dalle profondità della persona» . Per questo il “noi” come origine, accolto nel dono della fede, deve tradursi nel “noi” come compito, nello spazio pubblico di un confronto critico e onesto.
Sembra questa, in fin dei conti, la radice del dibattito che si è acceso negli ultimi tempi intorno alla laicità. Nel suo discorso al Quirinale, papa Benedetto ha ricordato le coordinate conciliari di una «sana laicità», in virtù della quale «le realtà temporali si reggono secondo le norme loro proprie, senza tuttavia escludere quei riferimenti etici che trovano il loro fondamento ultimo nella religione». In quel “senza tuttavia escludere” sta precisamente lo spazio di un vero dialogo tra cultura laica e cultura cattolica, possibile solo se riesce a prendere le distanze da qualsiasi atto di preliminare preclusione ideologica. Nessuno, infatti, verrebbe limitato nella sua libertà se si capovolgesse l’assioma degli illuministi, provando a misurarsi con le grandi questioni di senso «veluti si Deus daretur» .
Lo spazio di questo dialogo suppone la disponibilità a riconoscere alla dimensione religiosa non solo una pertinenza antropologica, capace di illuminare e dilatare l’orizzonte dei valori e dei diritti umani fondamentali, ma anche di fare i conti con i contributi che storicamente sono stati elaborati dalla dottrina sociale della Chiesa e corrobati dalle pratiche di vita dei credenti: in tale prospettiva dal principio personalista discende l’intero cespite dei principi del bene comune, di sussidiarietà, di partecipazione, di solidarietà, che orientano i rapporti tra etica, economia e politica; promuovono la vitalità della società civile, l’impegno per lo sviluppo, la pace tra i popoli e la giustizia globale; consentono di correlare correttamente la trama delle relazioni tra diritti umani, costituzionalismo e legge naturale…
Si aprono, a questo punto, spazi storicamente inediti di impegno e di testimonianza dei cattolici italiani, sul piano culturale e pastorale, che richiedono una conversione dell’intelligenza e della vita. Ma questo servizio al futuro (di tutti, non solo di noi stessi) sarà credibile se esso stesso, a sua volta, non si esprimerà in forme discontinue e atomistiche. Tra il primato vincolante della comunione ecclesiale, nella fedeltà ai “fondamentali” della fede, e il legittimo pluralismo di scelte frutto di un giudizio storico concreto, che deve mediare in modo responsabile fra l’assolutezza dei principi e la relatività delle situazioni, sta uno spazio di libera convergenza dei cattolici italiani: una convergenza (tanto più credibile, quanto più è – e deve apparire – libera) intorno ad alcune questioni moralmente, culturalmente e socialmente strategiche, sia pure perseguite attraverso un policentrismo cooperativo, di cui si avvertono segni promettenti. L’intuizione del Progetto culturale, a dieci anni distanza dal III° Convegno ecclesiale, si è rivelata lungimirante e preziosa, nella misura in cui ha contribuito ad innescare un processo virtuoso che ora comincia a dare i suoi frutti, ancor più significativi quanto più sarà possibile assecondare le sinergie potenziali in iniziative come questa e spendersi per una ulteriore e più esplicita saldatura pastorale.
Il cattolicesimo italiano che, soprattutto a partire dal convegno ecclesiale di Palermo, si è ben esercitato nel discernere i segni dei tempi, è ora chiamato a scrivere a due mani una pagina nuova nel futuro del Paese, usando l’alfabeto di tutti: con una mano dovrà impegnarsi ad onorare coerentemente il primato di Dio, continuando ad offrire attestazioni plausibili della sua trascendenza e del suo amore che si è reso visibile; con l’altra dovrà elaborare una testimonianza altrettanto alta e credibile in difesa della persona umana, e persino addurre prove inequivocabili della sua esistenza fragile e preziosa, che paradossalmente oggi rischia di diventare invisibile.
Luigi Alici