Si fa da sempre un gran parlare dei cristiani «in politica»: sì, no, come, quando? Una questione controversa. Ma già la Lettera a Diogneto (5,5) diceva dei cristiani: «partecipano alla vita pubblica come cittadini». Né potrebbe essere altrimenti.
Il cristiano vive nel mondo, è pienamente immerso nella storia e partecipa al suo destino terreno, anche se la sua Speranza ultima è “nei cieli”. Il suo modo di stare nella vita e nella storia è: «esserci». Più che un dato ovvio, una vocazione-imperativo fontale e fondamentale, dalla quale sgorga il senso stesso dell’esistenza. Accogliere la vita e abitarla, farsi carico della storia come del primo e supremo «dono» che Dio offre a tutti e ciascuno è cristallina consapevolezza. Insieme percorrere il tempo – per altro così limitato e precario – di quest’unica occasione che ci è data di esistere è «esserci» appunto. Questo significa riconoscersi in questo tempo presente e parteciparvi attivamente. Non si tratta di una astratta accezione della «storia» come categoria trascendentale: siamo semplicemente dentro all’unica storia possibile, che prende la forma viva della complessità sociale, culturale, spirituale e politica che ci appartiene ed a cui apparteniamo. Andare «altrove» non si può. Né si deve. Non resta che raccordarci con questa storia e questo presente, portando «in piazza», nell’agorà della vita, il nostro contributo di verità, la nostra libertà, i nostri sogni, la nostra voglia di non sciupare quest’unico «talento» che abbiamo da trafficare.
Se a volte se ne parla con qualche impaccio – come da qualche tempo accade – a motivo delle particolari contingenze, e si vive lo smarrimento del non sapere da che parte cominciare a motivo dell’evolversi imbarazzante delle cose in questo momento in questo nostro beneamato paese (che è lo scenario imbarazzante – ma insostituibile! – in cui questa nostra storia «accade», che spesso non ci piace, ci sgomenta, e sembra trasformarsi in un territorio insidioso, sgradevole e tendenzialmente fazioso per la virulenza delle questioni mai risolte e delle contraddizioni in campo), ciò significa che urge ancor più una nuova determinazione a «scendere in campo», affrancandoci da ogni pregiudiziale e da ogni pur comprensibile passionalità e travaglio «ideologico», per riproporre quella «caratura alta» della politica che Paolo VI non esitò a definire “arte nobile e diffìcile”, perché “maniera esigente di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri”. Parlava di «rischio» della carità politica mons. Tonino Bello, richiamandosi alla Gaudium et Spes, un rischio che non è né lecito né possibile non correre, senza abdicare a un dovere morale ineludibile e consegnare ad altri il compito di farsene carico. Un rischio pari a quello del Samaritano della parabola evangelica: “Il cristiano imbocca la Gerusalemme-Gerico; non disdegna di sporcarsi le mani; non passa oltre per paura di contaminarsi; non si prende i fatti suoi; non si rifugia nei suoi affari privati; non tira diritto per raggiungere il focolare domestico, o l’amore rassicurante della sposa, o la mistica solennità della sinagoga. Fa come fece il buon Samaritano, per il quale san Luca usa due verbi splendidi: Ne ebbe compassione e gli si fece vicino”.
Se c’è «sporcizia» nel modo col quale oggi si maneggia troppo sovente lo strumento della «politica» caduta nelle insidie dei «briganti»! per usare l’analogia evangelica; o ci turba e preoccupa l’idea che in una società plurale e laica come la nostra, la contrapposizione delle idee e dei valori perseguiti, non riesca a sottrarsi al pericolo e alla “tentazione” diabolica della “divisione” (la parola diavolo deriva etimologicamente proprio da questa parola), ed alla sindrome dell’egoismo e del potere, o dell’assalto brutale e volgare alla diligenza; allora significa che è proprio urgente «scendere in campo», trovare comunque la maniera di «esserci» per assumersi la propria porzione di responsabilità e di iniziativa. E riproporre soprattutto la «dignità» di dover far politica. E non mi riferisco alla tanto discussa e discutibile «ricomposizione politica dei cattolici» quasi a volere evocare e riproporre scenari di nuove contrapposizioni stantie e ampiamente superate dalla storia (Sturzo e il suo Partito Popolare docet!), che, questa sì, potrebbe rievocare esperienze e scenari già visti, e non privi di inquietudine. Ma solo riprendere in mano responsabilmente le ragioni di una Chiesa che ci esorta a studiare e inventare “nuove e più ampie forme di partecipazione alla vita pubblica da parte dei cittadini, cristiani e non cristiani” e nuove iniziative di presenza dei «fedeli laici» che «non possono affatto abdicare alla partecipazione alla “politica”, ossia alla molteplice e varia azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale destinata a promuovere organicamente ed istituzionalmente il bene comune che comprende la promozione e la difesa di beni, quali l’ordine pubblico e la pace, la libertà e l’uguaglianza, il rispetto della vita umana e dell’ambiente, la giustizia, la solidarietà, ecc.» (Nota Dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, 21/11/2002, 1).
Saremo chiamati fatalmente a tornare su questo argomento per confrontarci (dentro e fuori il perimetro della ecclesialità). La paura di «contaminarsi» con la storia non è saggezza per chi sa di essere stato mandato nel mondo per abitarlo sino in fondo, pur sapendo di non potersi con esso confondere del tutto per la forze della Speranza più grande che abita in noi per la Fede.
don Gianni Zavattieri, Assistente Unitario AC