La primavera araba ha avuto inizio con un gesto estremo e apparentemente personale: Mohamed Bouazizi si è dato fuoco il 17 dicembre 2010, per protestare contro il sequestro della sua merce da parte delle autorità tunisine. L’ondata di manifestazioni, sollevazioni, rivoluzioni che ha avuto inizio in Tunisia, e che poi si è allargata a tutta la sponda nord-africana del Mediterraneo, da quel gesto così personale, frutto di una insofferenza non più sopportabile da parte di un giovane commerciante, fa comprendere come esso sia stato una scintilla per una situazione già divenuta esplosiva e pericolosa.
Il tempo che ci separa dall’inizio della protesta non ci permette ancora di comprendere quali sono le prospettive che attendono i diversi paesi. Scorrendo le pagine dei quotidiani di questi mesi si possono trovare tentativi di comprensione del fenomeno che muovono dalla ricerca di cause di tipo demografico (in questi paesi i giovani rappresentano la maggior parte della popolazione e avanzano richieste di futuro), interessanti interpretazioni sul ruolo dei nuovi mezzi di comunicazione, in particolare social network (facebook, twitter, youtube), come strumenti che hanno permesso alla rivoluzione di essere coordinata, letture dell’islam e della sua capacità di misurarsi con la democrazia invocata e con la politica, ponderate riflessioni sull’intervento internazionale nelle vicende nord-africane da parte dell’Onu, della Francia, degli Stati Uniti. Sulle pagine dei nostri giornali nazionali sappiamo bene che la cronaca e la riflessione si sono concentrate nei mesi scorsi anche sull’acuirsi dell’immigrazione dal mare Mediterraneo, sull’accoglienza, sulle strutture, sul transito in Italia per approdare poi ad altri paesi europei, dunque sulle responsabilità dell’Europa.
Oggi, tracciando un bilancio provvisorio, noi sappiamo che la primavera araba ha portato alla fuga o alla eliminazione di tre capi di stato (Egitto, Libia, Tunisia), che in alcuni di questi paesi si è alle prese con governi provvisori e con prospettive elettorali non chiare, che gli eserciti in alcuni paesi hanno sostituito i poteri dello Stato, che ci sono piazze ancora in fiamme e violenze non ancora sedate. La situazione nel tempo che passa più che chiarirsi e volgersi decisamente verso una soluzione, si offusca, diventa più complessa, rischia di impantanarsi. Lo sappiamo perché lo vediamo sulle pagine dei giornali, ma anche perché la nostra storia europea ci consegna un patrimonio di rivoluzioni e sollevazioni che ci fa essere assai prudenti nei confronti di esiti certamente positivi dei tentativi di rivolgimento politico. Sappiamo bene che “fatta la rivoluzione” non si è ancora nemmeno a metà strada.
Ciò che forse non sappiamo è quale possa essere il nostro ruolo, dell’Italia – paese europeo proteso nel Mediterraneo e geografico crocevia tra Africa ed Europa – dell’Europa stessa, o, meglio, non sappiamo nemmeno se vogliamo avere un ruolo che sia davvero per i popoli e non per interesse. È questa la domanda che oggi ci dobbiamo porre nel guardare con speranza alla richiesta di democratizzazione nordafricana: quale può essere il ruolo dell’Europa dentro questo processo, quali compiti politici, sociali, istituzionali per favorire un’autonoma e reale crescita dei paese nordafricani. La sensazione è che ci sia una sorta di distrazione, di disinteresse, una fatica a cogliere la portata di quanto accade se non in termini di guadagno, di interessi economici europei da parte dei diversi paesi.
Il Mediterraneo invece è crocevia di popoli, di culture, è uno degli snodi geopolitici più delicati anche per l’intero equilibrio mondiale. Non prendere sul serio quanto accade significa essere ciechi sul futuro. Il XXI secolo sta giocando sulle sponde del mare nostrum la sua possibilità di pace.
Ilaria Vellani