Giovedì, quel gesto tocca anche noi

Nella nostra mente, spesso, più di tante parole sono alcuni gesti a rimanere scolpiti, specie quando a compierli è stata una persona che ha esercitato un certo fascino su di noi. Può anche essere, a volte, un gesto che sintetizza meravigliosamente una relazione, un’amicizia e forse tutta una vita. Le parole dinanzi a tali gesti rivelano tutta la loro pochezza.

Si resta impressionati, leggendo il vangelo di Giovanni, nel riscontrare l’assenza di un racconto particolare riferito alla vita di Gesù, specie se si considera che gli altri evangelisti non l’hanno per niente dimenticato. Stiamo parlando dell’istituzione dell’Eucaristia. Come mai Giovanni non sente il bisogno di tramandare questo evento particolarmente significativo? Si tratta di una semplice dimenticanza? Pare che Giovanni nel suo scritto affidi all’eloquenza di un gesto il significato dell’Eucaristia. Probabilmente a distanza di anni (Giovanni scrive pressappoco verso l’anno 100) le comunità cristiane, pur celebrando l’Eucaristia, correvano il rischio di smarrire il suo significato più pregnante o almeno stavano perdendo di vista le sue traduzioni operative. La lavanda dei piedi è per l’Evangelista l’altro modo per raccontare l’Eucaristia, anzi è il modo per continuare a riproporre ai discepoli di tutti i tempi la forza evocatrice di una vita sprecata nell’amore perché, come dirà l’Apostolo, nessuno di noi vive per se stesso.

Nel capitolo tredicesimo leggiamo che Gesù si alza da tavola, depone le vesti, prende l’asciugamano, se lo cinge ai fianchi, versa l’acqua nel catino, lava i piedi ai discepoli. È Gesù che opera, che fa, totalmente protagonista, non ha né inservienti né aiutanti. Perché quel gesto che riassumeva tutta la sua vita e che prefigurava la sua morte, in sintonia con lo stile con cui aveva vissuto, lui solo e solo così poteva farlo. Ordinariamente lo compiva uno schiavo non giudeo o una donna; la sposa lavava i piedi a suo marito, i figli e le figlie al padre. Un gesto, dunque, che è di umiliazione ma che può anche essere di relazione, di affetto. E non possiamo dimenticare che, se questo è il gesto compiuto quella sera da Gesù verso i suoi discepoli, l’unica che aveva fatto a lui quel gesto, l’unica – non glielo hanno mai fatto i discepoli né Lui l’aveva richiesto –, l’unica era quella prostituta che gli lavò i piedi e per la quale Gesù ha dovuto dire che quel gesto era una narrazione di amore (cfr. Lc 7,36-47).

Dio, in Gesù di Nazareth, mostra tutta la sua carica di passione e di compassione e si curva sui piedi dei dodici. Non si indica chi sia il primo o l’ultimo; fra i discepoli non c’è ordine di precedenza. Bello pensare che anche Giuda sia stato attraversato da questa lavanda non meno che gli altri. Quel grembiule -da cui il grande vescovo Tonino Bello mutuerà la splendida idea della Chiesa del grembiule- di cui il Maestro si era cinto e che non viene più tolto si trasforma in attributo permanente di Gesù: il suo servizio di amore non cesserà con la morte; per questo il suo costato, da cui sgorga sangue ed acqua, rimarrà perennemente aperto.

Pietro, irruento come sempre, mostra la comprensibile incomprensione di fronte al fare di Gesù. “Tu lavi i piedi a me?”. Un Dio così non lo prevedeva e ora si difende. Il Maestro e Signore chinato come uno schiavo davanti alla fragile umanità di ciascuno provoca scandalo. Ma bisogna lasciarseli lavare i piedi per entrare in relazione con Gesù. Lo stare con Gesù rimarrà sempre un dono e non diverrà mai merito. Dono da accogliere e da cui ripartire fino a sentirsi dire che se l’ho fatto io a voi anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri.

Come nella partecipazione alla celebrazione eucaristica anche qui pare di cogliere un richiamo: “Fate questo in memoria di me” non è semplicemente l’invito a celebrare messe magari liturgicamente impeccabili… E’ il desiderio del Maestro di prolungare nella storia quell’atto di amore, verso tutti, fosse anche verso un povero Giuda. Con tenerezza, indugiando sui piedi dei più affaticati e oppressi, di chi rimane sempre dietro nella corsa della vita, di chi non ce la fa a guardare più lontano e si è persuaso di non essere più capace di camminare o di camminare assieme agli altri. I fratelli e le sorelle che giungono ancora oggi da ogni dove, specie dal nord Africa, sulle coste della cattolicissima Italia trovano cristiani capaci di fare Eucaristia anche spalancando le braccia?

Mostriamo nei fatti il nostro sentirci “realmente e intimamente solidali con il genere umano e la sua storia”(GS 1)?  Le nostre comunità parrocchiali, i nostri presbitèri, pongono in essere sul territorio che abitano gesti alternativi, evangelicamente ispirati, per raccontare -magari anche senza dirlo- di questa passione struggente che ci anima nei riguardi della storia? Si comprende facilmente che se delle predilezioni abbiamo queste sono verso i più poveri?
“A coloro che ci mostrano i segni del potere noi dobbiamo mostrare il potere dei segni” (T. Bello).

Oggi più che mai sembrano indifferenti e vuote tante parole, persino quelle che si ascoltano dai microfoni delle nostre chiese. Le parole hanno stancato. Specie quando non sono accompagnate dai fatti. Solo un gesto, ancora oggi, potrà parlare al cuore di tutti, specie dei più giovani. Saranno punti di domanda lanciati gratuitamente e liberamente –con dolcezza e rispetto!- nel cuore di molti, desiderosi di risposte sensate alle proprie domande di vita.
Brocca e catino tornino ad essere gli arredi fondamentali non solo del giovedì santo ma strumenti ordinari di quella passione che ancora oggi salva il mondo.
Tocca proprio a noi!

don Vito Piccinonna, assistente nazionale del Settore Giovani