Il dramma è costituito dal deporre in un sepolcro nuovo l’autore della vita. Un sepolcro nuovo, scavato nella roccia, il più vicino, dove non era deposto nessun cadavere e mai ve ne sarebbe stato un altro.
Lì si conclude l’appassionato pellegrinaggio di Gesù verso Gerusalemme e di Dio verso l’uomo, e il lungo corteo avviato la notte precedente nel Getzemani, passato attraverso la veglia, la paura, l’obbedienza, il silenzio, la violenza, il dono dell’ultimo soffio.
Probabilmente quel corteo silenzioso e modesto ha incrociato i passi di un altro corteo ufficiale, numeroso e diretto verso la valle del Cedron, sul far della sera, secondo la prescrizione della Legge. Infatti, dopo l’immolazione degli agnelli pasquali, al calar della sera, vigilia del primo giorno di Pasqua, in processione ci si recava solennemente a raccogliere le prime spighe di frumento: «Ne porterete al sacerdote un covone, come primizia del vostro raccolto» (Lv 23, 5-16). Si trattava di un rituale minuzioso, in cui, dopo un dialogo tra popolo e sacerdoti, il frumento veniva tagliato, portato al tempio, macinato, infine mescolato con olio e incenso. Il secondo giorno della Pasqua, questa mistura veniva fatta oscillare davanti all’altare in un gesto di offerta e di consacrazione.
E il dramma allora è la sostituzione di quel covone offerto al tempio, frutto di mani d’uomo, con il corpo macinato del Maestro, dono totale dell’Amore, che un piccolo gruppo di discepoli e amici andavano a deporlo altrove, lontano dal tempio e dai suoi consueti riti.
Quel covone nuovo, reciso dai chiodi, dagli insulti, dalla lancia, dall’abbandono, in quest’ora viene condotto al sepolcro dai passi dei suoi tristi portatori, come ultima e definitiva offerta davanti a Dio, il Padre. E poi mescolato all’olio e ai profumi, nel secondo giorno di Pasqua, sarà accettato da Dio, con il sigillo della Risurrezione, come anticipazione della Pentecoste.
In questo dramma, spazio vuoto e tempo di attesa, trovano significato le parabole di Gesù sul grano e sulla semina. Nonostante il fallimento apparente, il gesto ampio e rischioso del seminatore riesce. Inaspettatamente. Contravvenendo qualsiasi umana previsione. Perché questa volta è lo stesso Seminatore che si è fatto seme di grano, messo a morire, dentro la terra, per tornare a vivere in una moltiplicazione di frutti (cfr. Gv 12,24).
Non dobbiamo rassegnarci al dolore della croce, alla paura del fallimento, alla tenebra definitiva del sepolcro. Ma dobbiamo urgentemente lasciarci toccare dallo sconvolgimento davanti al Padre provvidente, che non accetta sacrifici, ma dona il suo Unigenito; che si dona nella Parola e comunica anche col silenzio; che si mostra presente, operando prodigi e salva anche con il segno lacerante della sua assenza. Sconfitto vince! Messo a morte, è il Vivente!
È il dramma paradossale della fede, che deve aiutarci a leggere le nostre giornate: «In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo consegnati alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale. Cosicché in noi agisce la morte, in voi la vita» (2Cor 4,8-12).
La Legge infine prescriveva (cfr. Lv 23,11) che il sacerdote agitasse il covone, davanti a Dio, da una parte all’altra, affinché il sacrificio fosse accolto. Infatti, non è sufficiente innalzare e offrire al Padre il Figlio suo morto e risorto e celebrarlo nella santa liturgia. Deve essere anche agitata da una parte all’altra della storia, quest’offerta. Per raggiungere ogni luogo, ogni condizione, ogni cuore.
Nell’altitudine sconfinata dei cieli e nella fangosa profondità della terra. Così la supplica di oggi, insieme alla nostra ordinaria, ci spinge a raggiungere tutti: uomini e donne, nostri fratelli e sorelle di fede, non cristiani, non credenti, potenti, poveri, afflitti dal male, esuli, santi.
Nell’attesa, che dalla liturgia alla storia, tutti e ovunque possano essere raggiunti da questo Amore inerme e potente. Sperimentare la primizia della Vita e il frutto maturo della gioia.
don Dini Pirri, assistente nazionale Acr