Il 20 marzo 2010 mons. Calogero Peri faceva il suo ingresso in diocesi e veniva consacrato vescovo nella Cattedrale di Caltagirone. Già dalle prime battute del messaggio che il nuovo vescovo calatino rivolse al “popolo santo dell’amata Chiesa di Caltagirone” ci rendemmo conto che eravamo lontanissimi dal tono ufficiale e curiale che ci si sarebbe aspettato da un simile documento:
«Da quando sua Santità, il Papa Benedetto XVI, mi ha nominato vostro vescovo, senza ancora conoscervi mi siete diventati cari (…). Il nome, la storia, il volto di ciascuno di voi, fino a ieri per me anonimo, è venuto avanti e soprattutto mi è entrato dentro. Non so spiegarvi, ma voglio dirvelo, quanto mi siete diventati preziosi, familiari, e più ancora amici». Sono parole che colpiscono per la loro esemplare immediatezza. Fu chiaro da subito che Mons. Peri intendeva parlare la lingua dell’Ecclesia Mater e rivolgersi ai suoi figli usando il lessico del cuore. E piuttosto che atteggiarsi a principe della Chiesa, preferiva l’umile saio francescano dell’uomo di preghiera e del pastore d’anime, abituato ad interrogare le fonti della spiritualità cristiana e a ritrovare in esse le risposte alle domande di senso dell’uomo del terzo millennio.
Il consiglio diocesano di Ac lo incontrò a Palermo alcuni giorni prima, e subito ci conquistarono la sua straordinaria carica affettiva, la sua umiltà e semplicità francescana, ma anche l’indubbio spessore spirituale e teologico, segno di una lunga dimestichezza e familiarità con le fonti della sapienza cristiana.
Il suo ingresso in diocesi fu una festa di popolo. Ancora vivo è l’entusiasmo che ci trasmise nel suo primo discorso alla fine della solenne celebrazione di ordinazione episcopale:
«Ho poi un sogno, un desiderio che ritengo importante, un segno dei tempi, una testimonianza dovuta agli uomini, al mondo, alle realtà che in Cristo non credono. Essi vogliono vedere da noi una qualità di relazione che non è semplicemente dettata dalle simpatie, dalla reciprocità, dai favori, dall’interesse ma unicamente e soltanto dall’amore, dal rispetto, dall’essere in questo mondo tutti e sempre come il buon samaritano che si prende cura, che è capace, come ci dice il Vangelo, non di amare perché sei stato amato ma di amare per primo, di amare senza ritorno, di amare senza interessi, di amare tutti, di amare nonostante tutto, di amare il tutto».
A due anni di distanza, tentare un bilancio del primo anno di ministero episcopale di mons. Peri nella diocesi calatina rischia di essere prematuro e presuntuoso. Prematuro perché un anno è poca cosa per poter giudicare; presuntuoso perché manca la necessaria distanza critica per essere obiettivi. Tuttavia, pur con tutte le cautele del caso, si possono individuare, se non i tratti netti di un preciso e compiuto progetto pastorale, almeno alcune linee guida di un magistero e più ancora di uno “stile” ecclesiale che, come le tessere di un mosaico in fieri, fanno già intravedere il disegno finale non ancora ultimato. Emerge difatti, non solo in tutti gli interventi magisteriali di mons. Peri, ma persino nella gestualità più informale, una coerente e chiara idea di chiesa. Il modello di chiesa testimoniato da mons. Peri non è affatto neutrale e consolatorio e può anche essere spiazzante per i nostalgici della chiesa-autorità, rocca inaccessibile contro i pericoli del mondo, torre d’avorio inespugnabile e rassicurante, forte dei suoi dogmi e dei suoi riti, in grado di schierare un esercito all’altar. Nostalgici le cui fila s’ingrossano in questi tempi di incertezze e paure, che spingono verso la riproposizione di modelli e stili ecclesiali tradizionalistici.
In ultima analisi possiamo delineare due modelli ecclesiali alternativi, seppur spesso storicamente coesistenti e reciprocamente contaminati: quello di una chiesa che dice “io” e quello di una chiesa che dice “tu” (è bene ricordare che non è questa una riedizione aggiornata della logora e in fondo fuorviante distinzione tra “conservatori” e “progressisti”). Il modello perseguito da mons. Peri mi pare sia decisamente il secondo. Una chiesa che non attende di sapere chi sia il prossimo, ma si fa prossimo; che preferisce non interrogare ma farsi interrogare; non rendersi visibile agli uomini, ma vedere gli uomini. Un mutamento di prospettiva consacrato dalla cosiddetta “svolta antropologica” del Concilio. C’è una coerenza di fondo tra il prof. Peri, filosofo con la passione per l’uomo, che tenta di rifondare la tradizionale ontologia, superando le secche del monismo e del dualismo grazie ad una conversione radicale alla categoria privilegiata dell’alterità-dono, e il vescovo Peri, che dell’amabilità e disponibilità fa il tratto distintivo della sua pastorale nella diocesi calatina. Non si tratta solo di affabilità caratteriale, né di disposizione sentimentale; ma di una precisa e motivata scelta di campo. Nel suo testo L’uomo è un altro come se stesso, egli propone il termine dorontologia (dai termini greci per dire dono e essere) per definire la sua antropologia: l’uomo è un dono d’essere. Sin dalla nascita, la vita dell’uomo è difatti segnata dallo stigma del dono: «dovrei, infatti, essere riconoscente per un essere che sì ho ricevuto, ma che nello stesso tempo non ho chiesto» (L’uomo è un altro come se stesso, Sciascia Editore, Caltanissetta 2002, p. 307). In tale ottica diviene un’esigenza morale ineludibile quella «di donare per chi è dono, di promuovere per chi è creato, di prendersi cura per chi è stato benevolmente accolto, di dare identità per chi l’ha ricevuta, di riconoscere l’altro per chi è stato riconosciuto, di rispettare ogni altro per chi è già altro» (ivi, p. 312-313). È il rovesciamento del rapporto io-tu, che ha così profondamente segnato il pensiero occidentale, nel rapporto tu-io: dal “tu”, dall’alterità mi proviene il senso che sono io. Una rivoluzione copernicana che dall’antropologia non può non riversarsi nell’ecclesiologia e quindi nell’azione pastorale. È quest’intima persuasione, che fonda l’inconfondibile stile pastorale di mons. Peri e ne sostanzia il magistero: non a caso è “dono” la parola che più ricorre nei suoi interventi. In essi si può leggere una costante: il tentativo di condurre i fedeli a mutare prospettiva e angolo visuale, per guardare da un punto di vista “altro”. O meglio: per farsi guardare da un punto di vista “altro”. Di qui il ripetuto invito a saper leggere il senso della vita dentro e al contempo oltre la fenomenicità del dato esistenziale; a meravigliarsi per ogni attimo e incontro che ci viene donato. Insegnamenti che mons. Peri, un filosofo chiamato sulla cattedra di S. Giuliano, ha avuto il merito di far uscire dalle aule di scuola e di rendere popolari, non confinandoli nel chiuso recinto del linguaggio tecnico per specialisti. Il suo magistero ha il sapore di una novità di cui forse ancora non percepiamo tutta la portata. Fatichiamo a deporre il peso di consolidate abitudini, ottuse resistenze, ostinate diffidenze. A deporre l’uomo vecchio, per riscoprire il volto sempre giovane della chiesa.
«Quanto mi augurerei che la nostra non sia un’esperienza religiosa, ma un’esperienza spirituale». Queste parole, pronunciate da mons. Calogero Peri durante la solenne concelebrazione eucaristica in Cattedrale del 20 marzo scorso, nel secondo anniversario di consacrazione episcopale e di inizio del suo ministero in diocesi, esprimono bene qual è la priorità pastorale per il vescovo calatino. «Ho risposto due anni fa ad una chiamata di Dio che, senza mio merito, chiede a me “indegno suo servo” di essere pastore di questa Chiesa». È la prima preoccupazione del Pastore adoperarsi perché la comunità ecclesiale viva all’insegna del servizio disinteressato, di cui è capace solo chi si lascia guidare dallo Spirito, abbandonando le logiche del potere e del successo. Il ministero episcopale si riassume tutto nel compito di indicare la bussola a chi ha smarrito la direzione della sua vita: «Il mio principale dovere è orientare, cioè invitarvi a guardare ad oriente, al sole che sorge, al Signore che è il sole che sorge». Secondo il vescovo, l’“essere servi” è la cifra che qualifica il livello della nostra ecclesialità e ed il criterio che ci fa certi che «stiamo camminando secondo Dio, secondo il suo Spirito, secondo il suo cuore». Solo così è possibile una Chiesa in cui ci sia posto per la diversità, una comunità ricca dei carismi messi al servizio della comunità. Altrimenti si ha la divisione, la dispersione, la solitudine, la povertà spirituale. Il brano evangelico proclamato durante la liturgia (Gv 5, 1-16) è suggestivo: propone l’icona del paralitico guarito alla piscina di Betzaetà. Siamo paralitici, incapaci di rialzarci da soli dalla lettiga in cui siamo adagiati, in lotta l’uno con l’altro per arrivare prima all’acqua e salvare egoisticamente solo noi. Ma il miracolo non avviene per quelli che vincono in questa guerra tra poveri. Non sono i più forti, o quelli che godono di appoggi, che sono guariti, ma l’emarginato fra gli emarginati, che per 38 anni ha atteso invano la guarigione. Non chi si fa trasportare dagli uomini, ma chi si fa trasportare da Dio trova la salvezza. Commentando il simbolismo dell’acqua evocato dalle letture della liturgia, l’acqua del tempio e l’acqua della piscina di Betzaetà, mons. Peri così chiosa: «Bella l’immagine dell’acqua, che prima puoi attraversare, ma poi diventa fiume navigabile, che ti conduce». Nella piscina di Betzaetà, soffia lo Spirito, ma se ci azzuffiamo per arrivare prima, per avere i primi posti, non siamo toccati dalla sua opera vivificatrice. «Il criterio spirituale», allora, «possa essere l’unica logica che ci guida, perché la nostra grande testimonianza di fronte al mondo è l’esperienza dello Spirito». La vasca di Betzaetà ci ricorda che siamo stati battezzati nell’acqua e nello Spirito. È questa esperienza dello Spirito che fa della Chiesa non un organismo sociologico, ma una comunità vivente. «Ovunque passa il fiume di Dio, l’acqua dello Spirito, il fuoco del Signore, tutto rivive, guarisce, si risana». La solitudine dell’uomo paralitico diviene la sua forza nel momento in cui su di lui si china Gesù: «L’uomo confessa amaramente: io non ho nessuno che mi aiuti e mi immerga nella piscina. “Io non ho nessuno che mi aiuti”: è quello che diciamo quando sperimentiamo questa sensazione di abbandono. Ma tutti abbiamo il buon Pastore, il buon Samaritano, che si prende cura delle nostre ferite, perché il Dio in cui crediamo è il Dio della speranza, che apre sentieri inattesi e dà risposte impreviste». Il vescovo suggerisce che il miracolo avviene quando noi sappiamo guardare al nostro dolore e alla nostra sofferenza da un’altra ottica, quella di Dio. Allora troviamo la forza per non andare alla deriva e ritroviamo il timone della nostra vita. «L’uomo che giace nella barella, che è portato dalla barella, dopo l’intervento di Cristo, è un uomo che va libero e forte, capace di portare la barella, lo strumento del suo dolore e del suo insuccesso». La Parola di Dio è una Parola di speranza, una buona notizia che dobbiamo saper trovare dentro la nostra storia segnata dalla paralisi, dalla solitudine, dall’abbandono. «Per questo dico a ciascuno di voi: prendi il tuo fallimento, il tuo scoraggiamento, la tua fragilità e vai, perché Dio ci ha aperto una strada e ci fa vedere la lettiga in cui siamo adagiati con gli occhi di Cristo, con la forza che Lui ci dà di prenderci il nostro problema, senza farci schiacciare dalla sua mole».
Gli ostacoli, si sa, possono sbarrare, ma anche esaltare il cammino. Innanzi abbiamo la meta del bicentenario della diocesi, che sarà segnata, per precisa volontà del vescovo, dalla celebrazione del III sinodo diocesano. «A chi dentro sé ha disponibilità per custodire gli altri come e più di se stesso». Questa è la dedica posta dall’allora prof. Peri in apertura al suo testo di antropologia. Mi piace pensarla scritta anche per noi chiesa calatina, popolo chiamato a rinnovare ogni giorno quella scommessa di Dio per l’uomo che, irradiatasi da un’oscura e periferica provincia romana dell’impero, si è propagata in tutto il mondo, schiudendo la storia ad una sorpresa senza fine, heri, hodie et semper.
Giacomo Belvedere