1. Ringrazio il presidente della Provincia, on. Giuseppe Castiglione, il responsabile del Centro, dott. Paolo Ragusa, ed il direttore del Centro, dott. Sebastiano Maccarrone, per avere permesso, oggi, questo evento di comunione e di preghiera.
È un momento favorevole e di grazia per accogliere, da parte di Maria, e donare a tutti un messaggio di fratellanza e di amore.
In occasione della Giornata del Migrante del 1999, redatto nella prospettiva del Grande Giubileo del 2000, il Santo Padre Giovanni Paolo II scriveva:
«La Chiesa è per sua natura solidale con il mondo dei Migranti, i quali, con la loro varietà di lingue, razze, culture e costumi, le ricordano la sua condizione di popolo pellegrinante da ogni parte della terra verso la Patria definitiva. Questa prospettiva aiuta i cristiani ad abbandonare ogni logica nazionalistica ed a sottrarsi agli angusti schematismi ideologici».
Con questo incontro di oggi, abbiamo voluto vivere e testimoniare, questa realtà della Chiesa, e lo spirito che la anima. Ma abbiamo voluto testimoniare soprattutto la fedeltà che la Chiesa esprime al Suo Signore ed agli uomini di questo nostro tempo.
Nel volto di ogni uomo che soffre, incontriamo il volto di Cristo.
Nel lungo corso dei tempi, la Chiesa ha sempre dichiarato l’opzione preferenziale verso i più deboli. Lo ha fatto anche in maniera sistematica, promuovendo una nuova cultura dell’amore e della reciprocità professata nel magistero sociale dei Papi.
2. In questo nostro scorcio di secolo, la cosiddetta primavera nord-africana ha riportato sulla scena del Mondo un fenomeno già noto alla storia dell’umanità, quello della migrazione dei popoli. Questa volta, però, le proporzioni dei flussi, la velocità con la quale si sono realizzati, le particolari circostanze socio-politiche, gli scenari di violenza dei Paesi a noi vicini, la forte istanza di democrazia, di libertà, di verità, di giustizia sociale, e di pace delle popolazioni, hanno non solo cambiato i profili e la geografia politica delle aree interessate, ma ha anche sottoposto le nostre comunità ad un’accelerazione improvvisa dei processi di accoglienza e di integrazione.
Nel corso dei secoli, le popolazioni della civiltà mediterranea, hanno sperimentato la vicinanza e l’incontro fra diverse culture ed etnie. I nostri stessi volti, il nostro linguaggio, i nostri nomi e quelli delle nostre città raccontano di lunghi incontri, raccontano storie di amicizia e di scambi proficui.
Il mondo è, però, nel frattempo cambiato e nel panottico di relazioni interessate, relazioni di sfruttamento, di arricchimento, abbiamo perso lo straordinario esempio dei nostri padri e la straordinaria esperienza del “vicinato” fra i popoli.
Tutto è diventato per noi, improvviso, pericoloso, emergenziale.
I volti disperati di uomini sofferenti, di donne incinte, di bambini in lacrime, è diventato per noi, o meglio ci è stato presentato, come problematico. È divenuto un problema di sicurezza sociale.
I volti della disperazione hanno iniziato a chiedere aiuto e speranza, accoglienza ed integrazione, diritti e futuro.
Le nostre istituzioni, le nostre reti relazionali, i nostri apparati hanno dato risposte, ora buone ed organizzate, ora con qualche criticità. Non sono mancati neppure momenti gravi e luttuosi, sui quali si è fatta o si sta facendo chiarezza. Abbiamo fiducia nelle istituzioni.
Il valore aggiunto, in tutte le operazioni, è però sempre stata l’accoglienza delle nostre comunità.
Lo spirito solidale del nostro popolo. Uomini che hanno abbracciato ed accolto fratelli in difficoltà. Uomini che hanno accolto lo straniero che bussa alla nostra porta. Che hanno accolto la ricchezza sconosciuta dell’altro.
Ci siamo ricordati, della nostra viva e dinamica tradizione culturale. Ci siamo ricordati chi siamo e da dove veniamo. Il confronto con la sofferenza e la disperazione non lascia indifferenti le coscienze.
Così, accanto alla metodologia della sicurezza sociale, per affrontare l’emergenza umanitaria, è sempre più cresciuta la metodologia dell’accoglienza e dell’integrazione. È cresciuta in maniera quasi informale, si è diffusa nelle coscienze più sensibili, ed oggi chiede di ridiventare patrimonio culturale condiviso e diffuso.
Paradossalmente, però, nei nostri dibattiti, su questi punti ci siamo divisi: fra chi pensa che l’ospite sia una problema e chi invece lo accoglie come una risorsa.
È vero, il confronto, così irruento con la sofferenza di migliaia di persone ha indubbiamente messo a dura prova tutti i nostri apparati, le nostre strutture, le nostre realtà organizzate. Ci siamo dovuti confrontare, senza il tempo della riflessione e della comprensione, con esigenze di popoli ed etnie diverse. Il tempo per organizzarsi, a volte, è stato anche poco. Ancor meno il tempo per favorire una ordinata e pacifica convivenza fra le diverse popolazioni.
Oggi il tempo per la riflessione, per il dialogo, per scelte condivise ed accoglienti è però arrivato. Occorre ora passare dalla fase dell’accoglienza a quella dell’integrazione.
Il territorio del Calatino, è un esempio di tutto questo. Nonostante stiamo vivendo momenti di forte depressione economica e produttiva siamo stati indicati, da osservatori qualificati, come esempi di accoglienza e di integrazione. Abbiamo dimostrato come piccole unità d’accoglienza favoriscano un’alta possibilità di integrazione. Abbiamo accolto minori stranieri, che oggi giocano e crescono insieme ai nostri figli. Anche in questo caso, abbiamo vissuto momenti difficili, complessi e delicati, ma abbiamo sempre, insieme, trovato le soluzioni più opportune.
Da due anni facciamo, adesso, esperienza di una grande, grandissima, unità di accoglienza: questo CARA di Mineo. Ed ancora oggi, così come è sempre stato, non ci sottraiamo alle nostre responsabilità. La Chiesa di Caltagirone vuole offrire le competenze che ha ed il contributo proprio per un percorso, che auspichiamo ancora una volta condiviso, e che sia finalizzato alla formazione delle coscienze e di quella tanto anelata cultura dell’amore e della fratellanza.
3. Il CARA di Mineo rappresenta per me il sedicesimo Comune della Diocesi di Caltagirone.
Finita la fase dell’emergenza è adesso il tempo per rifondare, insieme, un nuovo patto sociale, un patto fra istituzioni e comunità civile, fra ospiti ed ospitanti, per creare le condizioni non solo di una pacifica e proficua integrazione interculturale, ma anche per valorizzare al massimo grado il contributo e le potenzialità di risposta di chi è nel momento di difficoltà. Non esistenze sospese in un futuro incerto, in un tempo da trascorrere forzosamente, in uno spazio marginale, in uno “spazio-vuoto” per alcuni, in un “non-luogo” per altri. Ma esistenze creative, impegnate, partecipi!
Per questi nostri fratelli chiediamo, quindi, non solo interventi di prima accoglienza, o una struttura grande come questa, ma anche interventi coordinati e nuove politiche migratorie, nuovi modelli di incontro e di integrazione.
Chiediamo:
a. tempi certi per il rilascio dei documenti previsti per legge, e chiediamo di migliorare e di istituire laddove necessario i servizi che qualificano una comunità come comunità accogliente;
b. la tutela della famiglia e della sua unità soprattutto quando espiantata dal proprio terreno culturale, la famiglia tenta di impiantarsi in un nuovo contesto;
c. la tutela della dignità della donna e della vita. I più deboli, pagano sempre i costi più alti. La vita sia tutelata, dal suo concepimento alla sua fine. Prego per i tanti bambini non nati, e per i numerosi giovani che hanno concluso la loro esistenza in terra straniera;
d. la tutela dei minori, affinché il cambiamento atteso per la loro vita possa diventare cambiamento sperimentato per il popolo di origine;
e. il rispetto del diritto alla salute, provvedendo al miglioramento di tutti i percorsi di prevenzione, di diagnosi e di cura in uno sforzo condiviso e sinergico che veda lavorare in rete tutti i presidi sanitari presenti sul territorio;
f. azioni vere e concrete di integrazione, che favoriscano la formazione (anche lavorativa), l’alfabetizzazione e l’orientamento alla cittadinanza degli ospiti del CARA.
Mi appello, quindi, accoratamente, alle istituzioni ed ai governanti affinché la vita dei nostri fratelli ospiti del CARA sia qualificata e non quantificata.
Molto è stato fatto, molto ancora si può fare. Il mio auspicio è che non si indugi, e che agli ospiti ed ai cittadini giunga un messaggio nuovo di speranza, di amicizia, di solidarietà nella casa comune che vuole essere la nostra Isola, che nel tempo si è sempre distinta per la sua capacità di accoglienza e di integrazione.
Mineo, 15 aprile 2012
+ Calogero Peri ofmcap, Vescovo di Caltagirone