Don Antonino Sebastiano Valenti nacque a Scordia il 13 novembre 1945 da Gaetano Andrea e Elisa Elvira Caniglia. Ancora adolescente intraprende gli studi umanistici presso il seminario di Caltagirone. Nel 1969 si iscrive alla facoltà di Teologia presso la Pontificia Facoltà Teologica Meridionale “San Luigi” a Posillipo, di Napoli.
Ordinato presbitero da S. E. Mons. Carmelo Canzonieri l’8 luglio 1972, viene nominato Vicario Adiutore in omnibus nella parrocchia S. Maria Maggiore di Scordia a fianco di Mons. Gaetano Pernice, al quale succede come Amministratore parrocchiale e successivamente, dal 16 luglio 1981, come Parroco. Il 9 luglio 1993 S. E. Mons. Vincenzo Manzella lo nomina Arciprete parroco della chiesa Matrice S. Rocco di Scordia.
Il suo impegno e la sua dedizione verso la pastorale apostolica per i bambini e i ragazzi trova luogo e tempo di compiersi in ACR. L’1 gennaio del 1978 gli viene affidato l’incarico di Assistente diocesano dell’ACR, e ancora dal giugno 1986 al giugno 1987 svolge servizio di Assistente Regionale. L’organizzazione dei campi-scuola dell’ACR rappresentava uno dei momenti più importanti dell’anno. Vi si dedicava senza risparmiarsi: dall’ideazione alla scelta del tema, dalla composizione alla stampa dei libretti. Ne era mente e mano, ideatore e manovale. Si spendeva al massimo per la settimana, che per lui era la più impegnativa e allo stesso tempo la più rinfrancante. Non c’è memoria di sue altre assenze dalla parrocchia, lui era sempre lì al suo posto non esistevano vacanze o giorni di riposo.
La sua linea pastorale si fondava sugli orientamenti conciliari di cui era fautore e promotore. In particolare sosteneva l’importanza del laicato nella Chiesa, come impegno serio e responsabile della comunità ecclesiale per e nel mondo. I suoi insegnamenti, testimoniati con la sua stessa vita, sono sintetizzati in alcune frasi che instancabilmente ripeteva: “non ci sono disoccupati nella Chiesa”, intendendo dire che ciascuno trova il suo posto e il suo ruolo per la costruzione del regno di Dio, ed esortando . E ancora più significativa ed evocativa l’immagine della “chiesa del grembiule” ovvero di una chiesa che vive la dimensione del “servizio”, con umiltà sempre e a qualunque livello. Lo ricordiamo passare dagli abiti sacerdotali alla tuta blu da operaio mentre puliva la chiesa con stracci e secchiello o mentre stampava i libretti per la liturgie tra tonner e ciclostili che si inceppavano di continuo.
Di lui ci rimane un grande insegnamento:avere cura del prossimo. Per mostrare l’attenzione verso chi lo circondava, teneva una grande agenda dove appuntava le date dei compleanni o di ricorrenze particolari e non mancava di farsi presente con un augurio o con un libro scelto ad oc. Non era tipo lezioso o vezzoso. A chi stava male non rivolgeva elegantemente auguri di pronta guarigione ma ironicamente si offriva di portare l’estrema unzione. Non ci chiamava col nostro nome ma con uno inventato da lui, per prenderci in giro. Tuttavia aveva una profonda delicatezza dell’anima che trasmetteva rendendo importante chiunque lo seguiva nel nome del Signore. Sono immagini espressive più di un omelia: sono la realizzazione della Parola che vuole unite le opere alla fede. Sono la testimonianza di una vita vissuta per Cristo, con la fede e nella Chiesa, al punto da dimenticare se stesso, di non badare alla fragilità di un corpo che richiedeva una pausa, forse solo un po’ di riposo.
Si prestava a iniziare una riunione quando i segni del suo malessere furono evidenti ai presenti che lo accompagnarono per una visita medica. Inizia così il tempo della malattia che lo riduce ad una quasi immobilità. Impedito nel ministero per motivi di grave infermità il 10 luglio 2002 cessa dall’ufficio di parroco in coincidenza con la scadenza del mandato.
La sofferenza vissuta nel silenzio. Parlava da sé, non servivano più tante parole, comunicava con un linguaggio nuovo. Il messaggio che si riceveva era di una profonda, concreta e reale sofferenza ma vissuta con straordinaria serenità. Accoglieva chi lo visitava con un sorriso ma i suoi occhi si illuminavano di gioia con i bambini, che incuranti delle sue condizioni, gli si avvicinavano con naturalezza e allegria. Per chi, come lui, era abituato all’instancabile servizio, al fare, al “muoversi”, era ancora possibile servire Dio secondo una diversa dimensione. Accettare l’immobilismo del corpo e impedirgli di trasferirsi nello spirito.Ciò fece padre Antonio. L’11 agosto 2008 ha compiuto il suo ultimo viaggio nella Gerusalemme Celeste, alla casa del Padre.
Noi che lo abbiamo conosciuto, seguito, ascoltato tendiamo di essere il frutto della sua semina imitandolo nel nome del Signore.
Maria Fortuna Scavo