Itinerario di fede alla sequela di Cristo
dentro le sfide della vita
(Mc 4,35-41)
Carissimi Presbiteri e Diaconi,
carissimi Fratelli e Figli dell’amata chiesa di Caltagirone,
mi rivolgo a voi e a tutti quelli che, impegnati in altro o indifferenti, non si riconoscono nella Chiesa o nelle nostre chiese, perché questo Anno delle Fede sia un’occasione per tutti, per fare qualcosa di serio insieme gli uni per gli altri.
L’apertura dell’Anno della Fede, che il Papa Benedetto XVI ha indetto dall’11 ottobre 2012 al 24 novembre 2013, vuole in maniera profonda ricordare i 50 anni dell’apertura del Concilio Vaticano II, evento di grazia che lo Spirito ha donato alla Chiesa universale, e i 20 anni della pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, strumento prezioso per la formazione alla fede pensata e vissuta.
Questo anno vuole e deve essere un’occasione di conversione, di revisione profonda e di rinnovamento della vita personale e comunitaria di tutti noi credenti in Cristo, Signore della storia e della nostra vita.
È un tempo di grazia, che ciascuno di noi, le nostre comunità parrocchiali e tutta la nostra Chiesa diocesana dobbiamo accogliere come un grande dono e un’opportunità preziosa da sfruttare sino in fondo per fare qualcosa di serio nella nostra vita e per la nostra vita. Se non tentiamo in tutti i modi di coinvolgerci profondamente e di gettare le basi per essere uomini nuovi secondo Dio e alla luce della sua Parola, se non viene interessata e coinvolta tutta la nostra vita nel suo assetto portante, rischiamo di fallire, ancora una volta, un momento di grazia che Dio ci offre nella sua inesauribile generosità.
Per fare tutto questo, veramente sul serio ed in maniera duratura, è necessario non pensare e soprattutto non fermarsi soltanto alla celebrazione di eventi e alle manifestazioni esteriori, ma impegnarsi in quel cammino paziente di trasformazione interiore, che non può conoscere soste e tanto meno avere un termine.
Per un’autentica vita di fede che ci coinvolga totalmente e coinvolga tutti, dobbiamo mettere in cantiere seriamente tutta la nostra vita, non per banali accomodamenti, ma per un rinnovamento totale e profondo, per rifondare la nostra vita di credenti e di testimoni del Signore in questo mondo e in questi nostri giorni. Infatti, fino a quando la fede, cioè Dio, non ci prende il cuore, faremo solo esercizi di parole o di pratiche religiose, ma saremo ancora ben lontani da quel Dio che per amore vero verso gli uomini è stato capace di spogliarsi di tutti i suoi progetti e pure del suo essere Dio, fino alla morte, e alla morte in croce, per essere uomo e per l’uomo, non a parole ma nei fatti e nella verità.
Prenderemo, quale modello di un realistico percorso di fede, una delle tante traversate del mare di Galilea che Gesù fa insieme ai suo discepoli, seguendo il Vangelo di Marco 4,35-41. Seguendo il Signore Gesù e i suoi discepoli, anche noi vogliamo prendere il largo, con Lui e con loro. Vogliamo rifondare e fare crescere la nostra fede, non soltanto al chiuso e all’ombra dei nostri campanili, ma alla prova della vita di ogni giorno e delle tante tempeste e paure che ci sfidano e ci sfiancano. Vogliamo coscientemente vivere dentro la Chiesa, dentro le sue potenzialità e contraddizioni. In compagnia dei fratelli e delle sorelle che il Signore ci ha messo accanto. Con una vita sacramentale seria e alla luce della Parola di Dio. Questo percorso di fede, che l’evangelista Marco ci propone, ci indica diversi orizzonti dentro cui la nostra fede si inscrive e possiamo viverla
I. L’ORIZZONTE DELLA VITA.
La fede ha a che fare, innanzitutto, con la vita e la sua concretezza. Con la vita di ogni giorno, con tutto quello che abbiamo messo in conto, ma anche con l’imprevisto e l’imprevedibile, che continuamente aggiornano o sconvolgono i nostri programmi. Dove la prova dei fatti e le tempeste che si scatenano costituiscono il crogiuolo per purificare la fede, per verificare quanta ne abbiamo o forse quanta ce ne manca. L’orizzonte della vita ci chiama in causa tutti, comunitariamente e personalmente, perché l’unica vita che abbiamo s’intreccia con quella degli altri, diventando quel dono o quel peso che ciascuno di noi vive.
1. Si fa sera.
La nostra vita ci conduce a riflettere, a volte impercettibilmente e a volte traumaticamente, che non c’è nulla di stabile sotto il sole, e che tutto passa più o meno velocemente. E anche noi passiamo come tutti e come tutto. E così il fluire delle cose, che a prima vista ci appare normale, ci impone invece tante considerazioni, che in maniera sempre più pressante ci ricordano che siamo e ci siamo in questo mondo, comunque, a scadenza. Il messaggio più sbrigativo e preciso di tutto questo, ci giunge attraverso il susseguirsi dei nostri giorni. Tanti, fino a farci l’abitudine come a cosa normale, ma anche tanto pochi, per non pensare che non ne possiamo disporre sino in fondo e per sempre. E così la spregiudicata franchezza di Qoelet, “Vanità delle vanità tutto è vanità” (12,8), finisce per contagiarci, nello stesso momento in cui vorremmo liberarcene. Ogni giorno giunge a sera, come tutte le cose arrivano al loro termine. Belle o brutte che siano. Si fa sera, ci portiamo avanti negli anni, tramonta il sole, suona la campana. Il giorno è finito e non c’è più tempo. E un bel giorno, come non ci sono più gli altri, non ci sarò neppure io. È pressappoco questo, quello a cui qualche volta pensiamo e il più delle volte trascuriamo, che, a secondo della sensibilità, riteniamo pessimismo o realtà. Ma da qualunque prospettiva ci mettiamo a guardare la vita, il risultato non cambia.
Il Vangelo di Marco, descrivendo alla fine del capitolo 4, un’ennesima intensa giornata di guarigioni e predicazione del Signore Gesù, ci ricorda che pure su quel giorno era calata la sera. E quando già i discepoli, come tutti noi, pensiamo e sogniamo il riposo, ci aspetta, invece, una dura traversata, nella notte e in mezzo al mare, pure in tempesta. Noi possiamo, dobbiamo, continuare a ripetergli: “Resta con noi Signore perché si fa sera” (Lc 24,29), disponibili, però, ad ascoltare e obbedire a quanto Egli ci vuole ancora dire.
2. Passiamo all’altra riva
E così quel giorno, come pure si aspettavano i suoi discepoli, invece di chiudersi con il tramonto del sole ed il sopraggiungere della notte, si riapre daccapo. Al sopraggiungere della sera, si chiude un giorno, ma si riapre sempre la fatica umana dell’imprevisto, del nuovo, di quanto non è messo in agenda, almeno nella nostra. Dio, infatti, segue e ci fa seguire un altro ordine del giorno, e anche della notte: il passaggio all’altra riva. Il viaggio-passaggio alla prospettiva che Egli conosce e che si riserva di manifestarci.
Non ci vuole molto per capire che questo passaggio ha tanti significati, da quelli più scontati e immediati a quelli più misteriosi e personali. Infatti, appena ci si sofferma un po’ a considerarlo, sono più le cose che contiene, rispetto a quelle che non possiamo ritrovarvi o che ci vuole donare. È il passaggio all’altra riva del lago, all’altra sponda, all’altro punto di vista. Ma è anche, e soprattutto, la fatica di attraversare e oltrepassare il già noto, verso una riva altra, una sponda altra, un punto di vista altro. È l’altro, il diverso, di tutto ciò che noi siamo abituati a vedere e frequentare, nascosto agli occhi e avvolto nel mistero della notte e dell’intelligenza. Ma oltre ad essere l’altro aspetto di noi stessi, è anche l’altro rispetto a noi, è ogni altra cosa e ogni altra persona che non siamo noi. E poi per noi credenti l’Altro di tutto è Dio. Ha il volto affascinante del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, la cui immagine è presente in tutto e in tutti.
Per questo la declinazione di ciò che è altro nella nostra vita non finisce mai. È inesauribile, scava in profondità nel mistero delle cose e ancor più delle persone. Basterebbe pensare agli infiniti passaggi della nostra stessa crescita, o che lo svolgimento ordinario della nostra vita ci richiede. Basterebbe pensare che nessuno dei passaggi che siamo abituati a fare, ci può dare qualche istruzione su quel passaggio ultimo che tutti siamo chiamati a compiere.
Il passaggio all’altra riva è il passaggio da noi a Dio. In una sola parola è il passaggio alla fede. A quella fede che ancora non abbiamo, e che per conquistarla veramente dobbiamo abbandonare quella che, illusoriamente, presumiamo di possedere. Per i discepoli del Signore, sia quelli di ieri, sia quelli di oggi, riscoprire la fede è avventurarsi nel mare aperto della vita, insieme agli altri e soprattutto in compagnia di Dio.
Quante volte i discepoli avevano solcato quel lago, di giorno e di notte. Quante volte l’avevano deciso loro. Quante volte quella traversata faceva parte di un programma notturno di pesca. Ma da quando, abbandonate le barche e le reti, erano diventati suoi discepoli non era più normale. Da quando avevano avuto la chiamata a cercare gli uomini e non i pesci, non aveva senso cercarli in mare e in più di notte. Eppure a dispetto di tutte queste considerazioni c’era non un consiglio, ma l’imperativo, e del Signore, di andare verso l’altra sponda. Imperativo che anche noi avvertiamo di sentire mimetizzato dentro gli avvenimenti della nostra vita, che ci chiede un supplemento di fatica, un lavoro straordinario, che chissà in quale busta paga ci verrà computato. Questo imperativo ci coglie di sorpresa, impreparati e anche infastiditi, e se dipendesse da noi lo rimanderemo volentieri a data da destinare. Invece quella sera il Signore comandò ai suoi discepoli, come poi continua a fare con tutti i discepoli, di attraversare il mare e di andare all’altra riva.
II. L’ORIZZONTE ECCLESIALE.
Un altro orizzonte, dentro il quale immancabilmente si svolge il nostro percorso di fede è quello della Chiesa, della nostra Chiesa diocesana e parrocchiale, della nostre comunità, piccole o grandi che siano. È la grande barca della Chiesa dentro la quale ci sono i fratelli e c’è anche Dio. Sempre scombussolata dal mare grosso e dal vento forte. Sono anche quelle tante barche che quella notte, e in ogni notte della vita, prendono il largo e sono ugualmente in mezzo alla tempesta. È il sacramento dei fratelli, compagni della nostra fatica e dei nostri drammi, che Dio ci ha messo accanto per essere, come fratelli e amici suoi, amici e fratelli tra di noi.
3. Nella fretta non dimenticare Dio
Nella nostra esperienza, ogni viaggio ci richiede un minimo di preparativi, perché le dimenticanze, specialmente alcune, si pagano care. Ma cosa portare quando il viaggio non è programmato, quando la meta è oscura, ed ancora più oscuro è il cammino che dobbiamo fare? Come comportarsi quando le cose che non sappiamo superano di gran lunga quelle che conosciamo? Quando non c’è tempo per riflettere e tutto è aggravato dalla oscurità che incombe. Cosa lasciare e cosa prendere? Il Vangelo che seguiamo, come guida e come lampada per questo percorso di fede, ci dice che i discepoli lasciarono la folla e presero con sé Gesù. Lasciarono coloro che si accalcavano come massa intorno al Maestro, ma presero con sé Gesù.
Questo movimento di lasciare la folla per incontrare il Signore è spesso sottolineato nei Vangeli. Una donna uscita dalla folla arrivò a toccare Gesù o almeno la frangia del suo mantello. Intraprendenza che sottolinea la fatica e le tante mediazioni per arrivare dinanzi al suo volto. A Zaccheo non riusciva di vedere il Signore, non solo perché era piccolo di statura, ma a causa della folla che costituiva un’impenetrabile muraglia. C’è un’avventura della fede che va fatta in prima persona e a tu per tu con Dio. A volte la folla, la massa, ci dà una qualche sicurezza o garanzia, mai però ci dispensa dal cercare il Signore o da poterlo sostituire con altro e con altri.
Un piccolo particolare, uno dei tanti incisi nell’impostazione narrativa dell’evangelista Marco, mette in risalto un aspetto di questo rapporto con il Signore che ci interpella non poco. Marco ci dice che gli apostoli presero il Signore con sé sulla barca, “così come era” (4,36). Questo particolare viene a specificare ulteriormente la scelta che i discepoli devono fare del loro Signore e Maestro. Non soltanto è importante non dimenticare di prenderlo sulla propria barca per la grande traversata della vita, ma di prenderlo semplicemente e come è. Senza nessun accomodamento e senza condizioni. Vedremo, da come si svolgeranno i fatti, che spesso Dio non corrisponde alle nostre attese, non entra nelle immagini o nell’immaginario che abbiamo di lui, ma lo squarcia e lo frantuma per offrirci il suo volto e il suo agire che solo la fede in lui, senza riserve, ci può concedere. Per ogni traversata, anche per quella della nostra notte, è opportuno verificare se abbiamo imbarcato Dio, e come l’abbiamo fatto entrare nella nostra vita. Ognuna di queste due dimenticanze è irrecuperabile nel dramma della tempesta.
III. L’ORIZZONTE BATTESIMALE E SACRAMENTALE.
La Chiesa, quale comunione di Dio con gli uomini e tra di loro, è fondamentalmente una realtà sacramentale. Che nasce e vive dai sacramenti. Tra questi un posto di rilievo ha e deve conservare il battesimo, autentica porta della fede, come pure della Vita in Cristo e nello Spirito. Per questo ogni percorso di riscoperta della fede è strettamente collegato con una riscoperta del proprio battesimo, che ci ha inseriti in Cristo e nello Spirito, che ci ha fatti figli nel Figlio, che ci ha resi figli di Dio e fratelli tra di noi.
4. Nella grande tempesta c’è chi dorme e c’è chi rischia
Ogni passaggio all’altra riva è sempre accompagnato da una tempesta. Perché forse il passaggio all’altra riva, il viaggio verso la fede autentica, è la più grande tempesta che si può scatenare dentro di noi. Tempesta nella quale ci sentiamo veramente soli, perché non sentiamo Dio vicino ai nostri drammi, a tal punto che temiamo che anche lui ci abbia abbandonati. Tutto rema contro di noi, il vento, le onde, il mare intero. E per la nostra paura, a volte, anche Dio. Perché quando Dio tace, quando dorme, non c’è nessun aspetto della nostra vita che non ne venga sconvolto.
Il quadro completo di questa tempesta nel cuore della notte, dove non si vede nulla, è veramente incomprensibile, paragonabile all’assurdo o a qualcosa di ancora più drammatico. Da una parte i discepoli stremati e pieni di paura, in balia delle onde e del vento, e per questo anche rassegnati, dall’altra parte, a poppa, c’è Gesù. Egli, pur essendo dentro la stessa barca, la stessa notte e la stessa tempesta, invece, dorme sonni tranquilli, su di un invitante cuscino. È un quadro che, nel suo drammatico contrasto, suscita anche un po’ di irritazione, a noi osservatori, e ancor più ai suoi discepoli: “Non ti importa che periamo?” (Mc 4,38) Quante volte questa domanda non attraversa anche la nostra mente di credenti, di discepoli, non si insinua dentro il nostro cuore, non sfida le nostre convinzioni. Perché Dio dorme quando noi siamo ad un passo dalla morte? Perché non interviene quando gli avvenimenti inesorabilmente precipitano e noi non ce la facciamo a scongiurarli? Purtroppo i perché delle nostre paure sono tanto più numerosi delle risposte che ci possono consolare.
Nessuna immagine, che normalmente abbiamo di Dio, risponde esattamente al bisogno di protezione che avvertiamo nel drammatico confronto con la realtà. Tutto ci fa paura. Ed è una paura più forte di quanto Dio non ci rassicuri. Sappiamo che c’è, ma in certe situazioni è come se non ci fosse. Perché dorme, perché non parla, perché non interviene, perché fa esattamente l’opposto di quello che noi gli chiediamo. Le situazioni estreme ci spingono a non credere, a non rinnovare la nostra assoluta fiducia in Dio. Tanto cosa cambia se credi o non credi. Infatti non cambia nulla. Tutto, nella stragrande maggioranza dei casi, procede come se quel grido: “Non ti importa che periamo”, cadesse nel vuoto. Il credente è drammaticamente lacerato perché tirato come un pendolo su due posizioni estreme. Da una parte l’invito a credere contro ogni speranza e dall’altra la paura di credere di non credere. Chi, infatti, con leggerezza potrebbe affermare di credere, se la sua paura e più grande della sua fede? Se quello che vede e pensa è più forte del silenzio del suo Dio? Alla prova dei fatti, quello che pensavamo essere la nostra fede, spesso non regge.
“Non ti importa che moriamo?” L’eco di quel grido continua a risuonare nella bocca e nel cuore dei discepoli di ogni generazioni, che non vogliono rinunciare al loro Signore, ma che non riescono a vincere le loro paure. Può, però, una tempesta risvegliare qualcosa nella monotonia dei nostri giorni e nell’andazzo della nostra sequela? Può una stessa esperienza essere causa di morte e fonte di vita? Al credente, come a chi ancora non crede, resta sempre un’ultima possibilità: svegliare Gesù, che dorme nella stessa nostra barca.
5. Svegliare il Signore
I discepoli di Gesù, che quella notte erano dentro la barca, in balia delle onde e ormai sul procinto di affondare, ci insegnano che ancora non è tutto perduto, quando per noi non c’è più speranza. Mettendo da parte ogni altra considerazione, essi svegliarono Gesù. Gli gridarono la loro paura e il loro disappunto. Si presero il suo rimprovero, ma furono salvati. Se nella traversata non abbiamo dimenticato di prendere con noi il Signore, se lo abbiamo preso così come è, se alla fine l’abbiamo lasciato dormire, c’è sempre però la possibilità di risvegliarlo, di farci ascoltare e di ascoltarlo. Ma cosa può significare per noi “svegliare Gesù che dorme”, quando c’è la tempesta, quando pensiamo di affondare, di perire e di morire?
Senza dubbio in questa tempesta di acqua c’è un richiamo più che esplicito al nostro Battesimo, a quell’acqua che ci ha donato la fede. A quell’acqua in cui è realmente annegato il peccato e il nostro uomo vecchio. All’acqua che ci ha accolto come grembo di morte e germe di nuova nascita. Infatti, in ogni naufragio della vita, abbiamo sempre l’opportunità di ritornare a lui con tutto il cuore, di tornare ad ascoltare la sua Parola, di sperimentare la sua signoria, di continuare a fare un passo avanti verso l’altra riva.
Risvegliare Gesù è risvegliare la fede, la fiducia in lui. Perché solo la fede ce lo consegna vivo, ci consegna la sua Parola di vita, ci consegna Dio che si prende cura delle nostre paure, che fatica e lotta con noi e per noi. Solo la fede ci dice che non siamo mai soli, neppure quando pensiamo di essere solo in compagnia dei nostri drammi.
IV. L’ORIZZONTE DELLA PAROLA.
Parola di Dio e fede costituiscono un binomio inscindibile, la cui frattura ha prodotto e produce una caduta verticale della fede, la cui ricomposizione la fa risorgere e prosperare. La lunga tradizione della Chiesa ci attesta che, quanto più stretto è stato il legame con la Parola di Dio tanto più viva è stata la fede, tanto più convinta è stata l’evangelizzazione, tanto più forte e autentica la testimonianza. Per questo nessun programma, che in qualsiasi tempo e situazione, che vuole seriamente portare ad una riscoperta della fede, può trascurare di considerare quanto e come, comunitariamente e personalmente, si ascolta la Parola. La fede dall’ascolto, continua ad essere l’indicazione principale di ogni autentico progetto di rinnovamento spirituale.
6. Signore di’ soltanto una parola e sarò salvato
La tempesta di allora, come quella di ora si può placare ad una sola condizione, che Dio parli e ci parli. Nella notte e nel buio ci può accompagnare solo la sua Parola. Quando i nostri occhi non lo vedono o non riescono a distinguerlo, ad orientarci nel buio può essere ancora e sempre solo il suo parlare. Nella notte non ci servono gli occhi ma le orecchie. Perché quando i nostri occhi rischiamo di confondere Dio con un fantasma, tanto l’abbiamo annacquato nel nostro orizzonte di vita, o l’abbiamo reso impalpabile nei nostri pensieri, non basta stropicciarsi gli occhi, bisogna piuttosto sturarsi le orecchie. Nel buio di ogni notte, è ancora, e solo la sua Parola che ce lo può fare riconoscere. Infatti, mentre fatichiamo per sfidare la tempesta e guadagnare il porto, mentre pensiamo di essere soli e non in compagnia di Lui, che invece cammina sempre accanto a noi, mentre gridiamo per la paura, mentre per noi tutto si complica, la sua parola risuona rassicurante: “Coraggio! Sono io; non abbiate paura” (Mc 6,50).
Senza la sua Parola, Dio non è Dio. Senza la sua Parola, Dio non è Dio per noi, non lo possiamo riconoscere e sentire come Dio. La nostra fede in Dio è ancorata alla sua Parola, altrimenti non è ancorata in nulla, non ha nessun fondamento, non ha nessuna rilevanza, in noi e nella nostra vita, in quella degli altri e di fronte al mondo. Questo sia su un piano esistenziale, sia su un piano sacramentale e comunitario. Ripartire dalla Parola e dal suo ascolto, attento, profondo, continuo, convinto, getta le basi, per poter ripartire a vivere dalla fede, con la fede e per la fede. Infatti, il discepolo del Signore non vive che di fede.
Fede o paura.
È vero che quella notte il Signore sgridò il mare, il vento e la tempesta finì. Ma quella notte, più di tutti, sgridò i suoi discepoli: “Perché siete paurosi? Non avete fede?”(Mc 4,40). Chiese a loro, come chiede a ciascuno di noi: “Dov’è la vostra fede?” (Lc 8,25) dov’è andata a finire la fede che pensiamo o diciamo di avere?
Per noi il dramma è la tempesta, il vento contrario, i pericoli, la malattia, il dolore, la morte; per Dio il vero problema è la fede, la fiducia in lui e nella sua Parola. È come se a Dio risultasse più facile o più semplice riportare la calma del mare e del vento della vita, che quella dentro il nostro cuore. Per fare bonaccia nella tempesta ci vuole solo la sua Parola onnipotente, per riportare pace nella nostra vita non basta la sua Parola, ci vuole la nostra fede.
Noi potremmo pensare che ogni storia a lieto fine, ogni qual volta finisce la tempesta che ci ha messo paura, è più facile riscoprire e vivere la fede. Per noi è più facile confessare che Gesù è il Signore. Ma purtroppo non sempre funziona così nella vita. Spesso la tempesta continua, come continua a soffiare il vento contrario; spesso la nostra barca continua ad imbarcare acqua e ad affondare. Ci sta bene un Dio che magari ci fa spaventare, ma che poi alla fine, anche con qualche rimprovero, interviene e ci salva. Ma un Dio che sappiamo esserci e che dorme, che quando gridiamo e non si sveglia, che non comanda al mare di calmarsi, o che almeno a noi sembra che non faccia nessuna di queste cose, di un Dio così, che cosa ce ne facciamo? Ecco la sfida vera che ci rivolge la realtà che spesso viviamo, ecco l’evidenza che ci sbatte in faccia chi ci vuole convincere che Dio e la fede sono un’illusione, ecco il dramma di chi crede di credere e si sente fortemente tentato di non credere più.
Non è facile venire fuori da questo dramma, da questa alternativa stringente e convincente. Almeno non è facile venirne fuori con i nostri ragionamenti o con la sola ragione. Perché ci vuole la fede, ma quella vera, quella che prima di tutto è un dono e poi una risposta. Che riceviamo gratuitamente e che dobbiamo conquistarci faticosamente, che ci viene data da Dio e dalla Chiesa e che ci viene richiesta dalla vita e dalle sue innumerevoli prove. Perché alla fine, solo la fede, cambia noi e non le situazioni della nostra vita. Perché solo la fede ci fa sentire Dio, sia quando viviamo e sia quando moriamo, sia quando tutto fila liscio, sia quando tutto è sconvolto.
E nella vita si vede (e come!), se la fede c’è o non c’è. Perché se c’è la fede, se c’è Dio, possiamo lottare e vincere anche contro tutto. Possiamo lottare e vincere anche contro tutto quello che ci vince. Ma per fare o sentire questo ci vuole la fede vera, ce ne vuole anche un granellino piccolo piccolo, altrimenti naufraghiamo materialmente e spiritualmente, naufraghiamo miseramente nel mare della vita. È vero che la fede non possiamo darcela da noi. Ma è pure vero che possiamo chiederla, invocarla, attenderla e possiamo gridare, “Signore, aumenta la nostra fede” (Lc 17,6).
8. Perché la fede sia la soluzione
In qualunque condizione ci possiamo trovare, il passaggio alla fede, è il passaggio dalla paura alla fiducia. È il passaggio dal pensare che a Dio non gliene importa di noi, al sentirlo invece buon samaritano per tutti e in tutte le strade del mondo. È il passaggio a quel vertice di luce che avviene anche attraverso e dentro le tenebre, passaggio per diventare lucenti pur in mezzo e grazie al torchio che bisogna attraversare.
Il libro dell’Apocalisse ci svela che quelli arrivati in patria e in bianche vesti al cospetto dell’Agnello, “sono quelli che sono passati attraverso la grande tribolazione, e che hanno lavato le loro vesti rendendole candide nel sangue dell’Agnello” (7,9). Come dire, che quello che avrebbe potuto e dovuto scoraggiarli nella vita, li ha invece purificati, resi splendenti, li ha preparati a quell’incontro e alla festa dell’Agnello, pure lui vittima e vittorioso. Dio, infatti, il più delle volte non ci tira fuori dalle nostre tempeste, dalle notti e dalle sue invisibili paure, ma ci tira fuori dal vederle senza speranza e senza soluzione.
Molto bella l’immagine che Dio ci consegna nel percorso alla fede del padre Abramo, padre di tutti quelli che sono chiamati alla fede. In una notte da incubi, lo conduce fuori e lo invita a guardare dentro la notte, a guardare ancora più a fondo nel mistero delle cose e a scorgere le stelle. Perché dentro ogni notte ci sono le stelle, dentro ogni buio splendono frammenti di luce. Non c’è infatti una notte così fitta da impedire alle stelle di accendersi, come non c’è nessuna notte così lunga da impedire o non preparare, comunque, la luce di un nuovo giorno.
E se a dirlo così può sembrare anche bello o poetico, nella vita tutto questo è pure vero, ma con un grande carico di paura e di sofferenza. Perché la fede continua a farti sentire tutte le tue paure e la tua sofferenza e ti invita ad attingere forza, prima che contro di esse, proprio a partire da tutto questo. Perché la fede non ti cancella i segni della morte, che come Cristo portiamo nelle nostre membra, ma ti invita a credere, nonostante tutto o nonostante te stesso, che un Altro ti darà la forza di farcela. Infatti, dentro tutte le smentite, che nel nostro cammino sembrano smentire e soffocare le speranze che abbiamo coltivato, la fede alimenta e rilancia la grande speranza, che non può essere smentita e che non ci abbandona.
Perché alla fine la fede, rispetto alle tante mete verso le quali ci muoviamo, ci mostra che c’è la meta ultima della patria vera e dell’altra riva. E se quelle verso le quali viaggiamo, spesso si allontanano e svaniscono, la patria e la meta di tutto e di tutti, sempre misteriosa e nascosta ai nostri occhi, invece, si avvicina e ci attende. Infatti, il Signore, che invochiamo e attendiamo perché ritorni, ci attende e ci incoraggia a non temere, a continuare ad avere fede in lui, Alfa ed Omega di ogni cosa, principio e fine della nostra vita.
Con l’augurio di rivivere in compagnia di Gesù e dei suoi discepoli la grande avventura della vita, apprestiamoci a vivere questo Anno della Fede con grande gioia, per riscoprire la bellezza di Gesù nostro Signore in cui vogliamo ancora di più credere e sperare.
Orientamenti Pastorali per l’Anno della Fede
Presentati nell’Assemblea Pastorale Diocesana del 27 settembre 2012
FARE FAMIGLIA PER
accogliere, vivere, celebrare e testimoniare
la nostra fede
1. Per questo anno pastorale ci vengono proposte diverse iniziative che dobbiamo tenere presenti
2. Voglio ricordarle:
– il decennio dell’“Educare alla vita buona del Vangelo”;
– l’esortazione post sinodale Verbum Domini;
– l’Anno della Fede che ricorda i 50 anni del Concilio Vaticano II e i 20 anni del Catechismo della Chiesa Cattolica,
– il Sinodo su “La Nuova Evangelizzazione per trasmettere la Fede Cristiana”,
– il nostro Piano pastorale “Come una Sposa adorna per il suo Sposo”,
– l’inizio della Prima Visita Pastorale,
– la preparazione al II Centenario della fondazione della nostra diocesi
3. Evitare che siano eventi giustapposti ma che senza essere trascurati nella loro specificità siano colti unitariamente.
4. Del nostro piano Pastorale vorrei ricordare e richiamare la declinazione sulla Famiglia, fare ed essere famiglia come nuovo soggetto di vita e di azione pastorale.
5. Per quest’anno sono previsti gli impegni pastorali: cura della qualità della “Comunità Eucaristica”; educazione alla preghiera personale e comunitaria, valorizzare la celebrazione del sacramento della Riconciliazione, ridisegnare gli uffici della Curia, valorizzare tutte le risorse personali ed ecclesiali dei laici, e delle Aggregazioni, laicali e religiose.
6. Abbiamo le 4 Costituzioni: Dei Verbum (Parola Di Dio); Sacrosantum Concilium (Sacra Liturgia); Lumen Gentium (La Chiesa) Gaudium et Spes (Chiesa e Mondo).
7. Penso che non sia una forzatura trovare un filo comune che unisca e potenzi tutti questi apporti verso un’azione pastorale armonica.
8. Per questo vogliamo proporre a livello Diocesano, da riportare poi a livello parrocchiale, un percorso che a partire dalle Costituzioni conciliari unifichi il tutto.
9. Abbiamo scelto quattro verbi emblematici: accogliere per la DV, vivere per la LG, celebrare per la SC e testimoniare la fede per la GS.
10. Il percorso è abbastanza semplice e lineare.
1) Accogliere la fede, vogliamo rimettere al centro la Parola di Dio, da cui nasce la fede, da cui scaturisce e si edifica la Chiesa, da cui la conversione, da cui nasce tutta la vita cristiana.
2) Vivere la fede nella Chiesa santa e peccatrice, sempre bisognosa di purificazione. Nella Chiesa quale massima espressione di comunione e di amore tra gli uomini, resi una sola cosa dall’unico Padre Dio. Processo di purificazioni di quelle tante immagini o vissuti della Chiesa che non corrispondono a quanto Dio volle e pensò della Chiesa, nata dal cuore ferito del suo figlio sulla Croce.
3) Celebrare gioiosamente la propria fede nella liturgia, in cui la grande famiglia di Dio si ritrova convocata dallo Spirito Santo, per accogliere e restituire nel dono del Signore morto e risorto, il mistero della propria vita in attesa del suo compimento finale nella patria del cielo.
4) Testimoniare, in atteggiamento di disponibilità e di servizio al mondo e agli uomini del nostro tempo, l’amore inesauribile di Dio, la speranza che sfida ogni disperazione e la fede che ci fa toccare nel buio dell’esistenza che Dio comunque e sempre cammina accanto a noi.
A ognuno di queste tappe possiamo dedicare un particolare tempo liturgico per viverle in sintonia con la celebrazione dell’Anno Liturgico.
11. A livello diocesano si pensa a degli eventi, 3 o 4: avvento, dopo Natale, Quaresima e Tempo pasquale per rivisitare le quattro Costituzioni invitando dei testimoni, cultori, conoscitori illustri del Concilio
12. A livello parrocchiale invece bisognerà spingere sulla normalità della vita pastorale cercando di fare accostare il popolo di Dio alla conoscenza, alla lettura, allo spirito del Concilio. Favorire l’acquisto dei testi, approntare schede semplici ed esplicative delle Costituzioni per far sì che il Concilio continui o torni ad essere una fonte alta di conversione, di ascolto e di amore per Dio tre volte santo e per l’uomo tante volte o troppe volte peccatore.
Caltagirone 4 Ottobre 2012
+ Calogero Peri Vescovo