Non si può «essere buoni credenti senza essere buoni cittadini», né possiamo «delegare sempre a qualcun altro, quello che invece è un nostro impegno e una nostra responsabilità». È un messaggio forte e coraggioso, quello scritto da mons. Peri in occasione dell’Avvento 2011. Un’autentica pro-vocazione nel più genuino spirito evangelico. Essere cristiani è rispettare la legalità, che «inizia dal dare e richiedere uno scontrino fiscale, dal mettere in regola un lavoratore, dal dargli la giusta paga, dal pagare le tasse senza molte furbizie e decurtazioni ingiuste, dal piccolo sacrificio per fare la raccolta differenziata». Essere cristiani è impegnarsi in prima persona per la giustizia sociale: in questo momento di crisi «se qualcuno più fortunato può fare qualcosa, anche un piccolo investimento, può assumere un lavoratore, può spendere qualcosa, può fare una ristrutturazione, può comprare, può movimentare in qualche modo l’economia, non ci pensi più di tanto. Anche questo, anche il più piccolo gesto, può essere una testimonianza concreta di giustizia, di carità, di speranza, di spiritualità. E ci auguriamo che per farlo, per vincere le paure, per decidersi a rischiare, anche la sua fede possa giocare un ruolo determinante». La comunità diocesana deve inoltre interrogarsi sul centro di accoglienza di Mineo, sugli interventi possibili da fare, sempre nel rispetto delle diverse istituzioni coinvolte. Perché «sicuramente c’è qualcosa che possiamo fare solo noi, perché credenti, o nella misura che ci lasciamo istruire dalla nostra fede». La solidarietà cristiana si traduce in «scelte politiche eque, sostegni mirati, investimenti oculati, e tutti quegli interventi che permettano poi di vivere la legalità come un valore»; in una politica, insomma, che «riconoscendo ai lavoratori il valore anche economico del loro lavoro, li mette in condizioni di poter pagare le tasse». Per il pastore della Chiesa calatina i cristiani non possono non abitare la storia con il valore aggiunto di una fede incarnata che abbia «una ricaduta e una forte incidenza sulla vita concreta: civile, sociale, economica, culturale», ma anche con un tocco di umanità in più, allontanando come «una tremenda tentazione» il considerare una benedizione le furbizie, gli egoismi, le illegalità diffuse, il discriminare “tra noi e loro”. Mons. Peri avverte che «il rischio di un Natale con tutto e con tutti, ma senza Dio, non è poi così tanto remoto». «La commercializzazione di tutto rischia di addomesticare e commercializzare anche la fede […]. Rischiamo di riempire di nulla il nostro cuore. Rischiamo di annacquare e vanificare anche la nostra fede nel Signore, che senza nostra fatica e merito, ci viene incontro. Perché il rischio è che sia il mondo e la sua logica a riempire noi». Non è, come si vede, un’analisi moralistica quella di Mons. Peri, l’ennesima quanto generica e inconcludente denuncia del consumismo dilagante, a cui purtroppo ci siamo abituati in occasione delle festività natalizie, ma una lettura cristiana stringente e costringente del nostro presente storico: «mi chiedo cosa può dire questo Avvento, come preparazione al nostro Natale comunitario, a tutti noi. A noi italiani, a noi siciliani, a noi della nostra Diocesi, che in questo momento stiamo vivendo, come tutti in Italia, un particolare momento di difficoltà e di crisi». In un periodo così caotico, in cui le urgenze sembrano essere esclusivamente di tipo economico, bisogna «rispettare le precedenze, mettere in ordine le urgenze», mettendo al primo posto Dio: «Per noi credenti in Cristo, che è nato per noi, è nato tra noi, ed è nato come noi, cambia molto, cambia tutto. Ed è necessario che si veda, che si avverta, che produca qualcosa di nuovo e di inedito dentro la storia». Solo così potremo vincere le nostre paure, senza cedere alla tentazione del disincanto: «Abbiamo tutti bisogno, in questo tempo più che mai votato al pessimismo, di ascoltare qualcuno e qualcosa che ci possano dire e dare una parola di fiducia. Questa necessità per tutti urgente, per noi cristiani è ancora di più indispensabile. Ne va della credibilità della nostra fede e della speranza che essa ci offre». Accogliendo la sfida che il mondo ci lancia, dobbiamo «“alzare il capo e contemplare che la nostra liberazione è vicina”. Perché i cristiani dentro la storia, non soltanto vedono i segni dell’oppressione, ma sanno pure scorgere i germi della libertà e della liberazione». Sapendo che «se l’azione degli uomini è forte, quella di Dio è, però, irresistibile». Il vescovo indica pure, per saper riconoscere questo nostro tempo alla luce del vangelo, una precisa metodologia, articolata in quattro “passaggi”: 1) il passaggio all’ottimismo: «Noi cristiani, siamo, o dovremmo essere, ottimisti ad oltranza, a tutti i costi, in maniera ostinata e incorreggibile. Perché per noi, il bene, il meglio, finirà per accadere, non perché siamo più bravi, o migliori degli altri, ma perché contiamo pure su Dio»; 2) il passaggio dall’egoismo alla condivisione: «La solidarietà, infatti, per noi non è un valore da richiamare solo in tempi di crisi e di emergenza, quanto un valore inossidabile su cui costruire o ricostruire sempre la società»; 3) il passaggio a un serio sforzo e ad una convinta azione di legalità: «Perché l’altro, il rispetto a lui dovuto, il prendersene cura, cercare il suo bene almeno quanto il nostro, se non riusciamo a fare di più, per noi sono sacrosanti. Nascono dall’uguale dignità che condividiamo. Nasce da quella comune condizione creaturale, e dall’essere figli di Dio, che ci rende tutti uguali»; 4) il passaggio verso la sobrietà: «in prima istanza, ce lo impone il momento particolarmente critico che viviamo. Ce lo richiede la congiuntura veramente difficile che dobbiamo risolvere. Ma accanto a queste motivazioni, che già da sole dovrebbero bastare a motivarci nelle scelte e nei comportamenti improntati alla essenzialità, dobbiamo mettere in campo motivazioni ancora più purificate e più evangeliche. Dettate dall’invito a spezzare il pane con l’affamato, ad accogliere il forestiero, a vestire chi è nudo, e questo non soltanto nei confronti di chi è vicino a noi, ma anche di chi è, e resta tanto lontano da noi e dalle nostre possibilità». È una Chiesa libera e forte, quella proposta da Mons. Peri, che parla il linguaggio della profezia e della speranza, convinta che «solo il Vangelo, e quindi solo Gesù Cristo, ha il potere di cambiare il deserto e di farlo fiorire». In questo periodo di Avvento, la comunità credente, come Elisabetta «carica di anni e pure sfiorita, senza figli e senza futuro», è interpellata dalla voce di Dio che la sveglia dal torpore e le ridona l’entusiasmo della fede: «Appena la voce è giunta, ecco la gioia!».
Giacomo Belvedere