Nasce il 20 febbraio del 1926 a Roma, da Giovanni e Maria, è l’ultimo di nove fratelli. Iscritto giovanissimo all’Azione Cattolica, negli anni del liceo classico è coinvolto nelle attività della Congregazione mariana guidata dal cardinal Massimo Massimi. Conseguita la licenza liceale nel 1934, si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza, dove inizia il suo impegno all’interno della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana). Diverrà condirettore di “Ricerca”, il periodico della federazione universitaria.
Il 24 novembre 1947 si laurea con una tesi su “I rapporti fra lo Stato e le organizzazioni sindacali”. L’anno seguente è assistente volontario presso la cattedra di Diritto amministrativo. Dal ’50 al ’59 è prima redattore capo poi vicedirettore responsabile di “Civitas”, rivista di studi politici diretta da P.E. Taviani. Negli anni cinquanta ha incarichi presso il CIR (Comitato italiano per la Ricostruzione) e le strutture della Cassa per il Mezzogiorno.
Il 26 giugno del 1951 sposa Maria Teresa (Miesi) De Januario, dalla quale avrà due figli: Maria Grazia nel ’52 e Giovanni nel ’55. Conseguita nel 1957 la libera docenza in Diritto amministrativo e in Istituzioni di diritto pubblico, insegna presso l’Accademia e Scuola di applicazione della Guardia di Finanza, e presso la facoltà di Giurisprudenza di Pavia. Viene nominato da Giovanni XXIII vicepresidente dell’Azione Cattolica Italiana nel giugno del 1959, cinque anni dopo ne sarà presidente.
La sua carriera di professore lo porta ad insegnare prima all’Università di Scienze Politiche di Trieste, poi Libera Università internazionale di studi Pro Deo. Nel 1973, concluso il lungo periodo alla guida dell’Azione Cattolica (tre mandati), viene nominato vicepresidente della commissione pontificia per la famiglia, del comitato italiano per la famiglia, della Commissione italiana Justitia et Pax.
Divenuto docente ordinario di Diritto pubblico dell’economia presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università di Roma “La Sapienza”, nel 1976 viene eletto, prima a Roma come Consigliere comunale, poi come vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura.
Il 12 febbraio del 1980 viene ucciso dalle Brigate Rosse, al termine di una lezione universitaria, mentre con la sua assistente Rosy Bindi, era su una rampa di scale della Facoltà: una giovane donna, dall’apparenza una studentessa come tante altre, chiamò Bachel dicendogli “Professore”, quando Bachelet si voltò la donna gli sparò, lasciandolo esangue sul pianerottolo.
CHI E’ STATO VITTORIO BACHELET? Un padre di famiglia e un educatore: con un gran senso della libertà e della responsabilità (e della serenità). Una guida del mondo cattolico: con un quotidiano esercizio della laicità, dell’obbedienza in piedi.
Vittorio era ben convinto che il mondo stava cambiando. Che erano in atto dei mutamenti irreversibili, che bisognava cogliere l’occasione. Aveva ben chiaro che nel Concilio c’era il seme della Chiesa rinnovata, della nuova cristianità povera e profetica. Povertà e profezia praticate, non predicate agli altri. Era cosciente che nel disagio e nell’utopia dei giovani c’era, mescolato ad equivoci e intemperanze, il segno di un inappagamento, la speranza di un mondo nuovo. Una speranza che il cristiano non può mai ignorare né condannare; ma, semmai, aiutare a chiarirsi, a crescere e realizzarsi.
La scelta religiosa nasce da questa coscienza di un radicale trapasso; e anche dalla volontà di non perdere nessuno di quelli che con semplicità e buona fede incontravano difficoltà nell’attraversare il tumultuoso fiume della storia. C’è, illuminante, una citazione di Vittorio Bachelet per spiegare la scelta religiosa, da un’intervista del 1979: «Di fronte a questo mondo che cambia, di fronte alla crisi di valori, nel cambiamento del quadro sociale e culturale, forse con una intuizione anticipatrice, o comunque con una nuova consapevolezza l’Ac si chiese su cosa puntare. Nel momento in cui l’aratro della storia scavava a fondo rivoltando profondamente le zolle della realtà sociale italiana che cosa era importante? Era importante gettare seme buono, seme valido. La scelta religiosa è questo: riscoprire la centralità dell’annuncio di Cristo, l’annuncio della fede da cui tutto il resto prende significato. Quando ho riflettuto a queste cose e ho tentato di esprimerle ho fatto riferimento a S. Benedetto che in un altro momento di trapasso culturale trovò nella centralità della liturgia, della preghiera, della cultura il seme per cambiare il mondo, o – per meglio dire – per conservare quello che c’era di valido dell’antica civiltà e innestarlo come seme di speranza nella nuova. Questa è la scelta religiosa».
Alla Seconda Assemblea Nazionale dell’ACI del nuovo Statuto (nel settembre 1973) così Vittorio Bachelet definì l’Associazione: “Che cosa è l’Azione Cattolica? Ne abbiamo parlato molto, ma mi pare che sia soprattutto una realtà di cristiani che si conoscono, che si vogliono bene, che lavorano assieme nel nome del Signore, che sono amici: e questa rete di uomini e donne che lavorano in tutte le diocesi, e di giovani, e di adulti, e di ragazzi e di fanciulli, che in tutta la Chiesa italiana con concordia, con uno spirito comune, senza troppe ormai sovrastrutture organizzative, ma veramente essendo sempre più un cuor solo e un’anima sola cercano di servire la Chiesa”.
Bachelet è stato anche uno Studioso del diritto: con caratteristiche e temi particolari, molto legato al rapporto tra la società e le istituzioni e un cittadino e uomo politico molto apprezzato: con straordinario disinteresse e senso del dovere (“meglio perdere con mitezza che vincere con la forza” amava dire).
Bachelet concepiva la politica come corresponsabile costruzione della città, in cui ognuno deve portare il contributo delle sue capacità in vista della costruzione di quel bene comune che rappresenta il fine relativamente ultimo della politica. l’impegno politico non è altro che una dimensione del piú generale e essenziale impegno a servizio dell’uomo. Un servizio che trova dunque la sua sorgente di valore nelle radici spirituali, religiose, etiche, culturali che lo animano dalI’interno e lo sostengono.
Molti faticano a rivivere oggi il clima teso degli anni di piombo, quelli del terrorismo e delle stragi. Da Piazza Fontana, il 12 dicembre 1969, il Paese fu attraversato da un segno di sangue. Bombe sui treni e nelle piazze, in obbedienza a disegni tuttora misteriosi. E attentati alle persone: gambizzazioni, rapimenti, uccisioni. Una lacerazione profonda divise l’Italia, un senso di paura e di sospetto di tutti verso tutti. Dopo le speranze e le utopie degli anni ’60, il decennio successivo fu la stagione dell’inimicizia civile. Della frattura tra giovani e adulti, tra rossi e neri, tra cittadini e istituzioni. C’era chi sparava e chi chiedeva la pena di morte.
Se è difficile ricordare quel clima, quasi impossibile è rivivere l’emozione della morte E DEIi funerali di Vittorio Bachelet, il 14 febbraio 1980, due giorni dopo il suo assassinio all’università di Roma dove insegnava. Bachelet, vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura e soprattutto conosciuto per essere stato per molti anni al vertice dell’Azione Cattolica italiana, era stimatissimo in tutto il Paese.
Nella gran chiesa di San Roberto Bellarmino, blindata, c’erano tutte le autorità dello Stato, rappresentanti di tutte le istituzioni che piangevano accanto ai comuni cittadini e ai giovani. Celebrava il cardinale Poletti, Presidente della Cei. In diretta Tv tutta Italia poté vedere, alla preghiera dei fedeli, un giovane dal volto sconosciuto che saliva all’altare. Era Giovanni, il figlio di 24 anni, tornato in fretta dagli Stati Uniti. Disse: «Preghiamo per il nostro presidente Sandro Pertini, per Francesco Cossiga, per i nostri governanti, per tutti i giudici, per tutti i poliziotti, i carabinieri, gli agenti di custodia, per quanti oggi nelle diverse responsabilità della società, nel parlamento, nelle strade continuano in prima fila la battaglia per la democrazia con coraggio e con amore. Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri».
L’impressione fu enorme anche per la semplicità e la totale mancanza di retorica. Parole vere ed equilibrate, in difesa della democrazia e della legalità, ma anche espressione di grande pace e bontà, sottolineate dai canti con i quali gli amici di Giovanni e Maria Grazia accompagnavano la liturgia. Molti intuirono in quel momento che la vera risposta al terrorismo era lì, davanti a loro.
Quella preghiera ha contribuito più di ogni altra cosa a fermare il terrorismo. E si è concretizzata nel comportamento di tutti i tuoi cari e di tante altre persone provate dalla violenza e dal dolore. Non possiamo dimenticare anche la testimonianza di padre Adolfo Bachelet, che non solo ha perdonato, ma ha consumato gli anni della sua vecchiaia andando di carcere in carcere per parlare e ascoltare giovani, terroristi e non, accompagnandoli nel cammino di conversione.
Adolfo era il fratello maggiore di Vittorio. Quando il vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura fu ucciso, il 12 febbraio 1980, Adolfo era un anziano religioso, economo della Compagnia di Gesù. Spirito libero e arguto, i nipoti lo ricordano come un magico nonno capace di tutto: giocare e pregare, aggiustare i fili della luce, far da mangiare, spiegare i problemi più complessi, parlare con chiunque…
Forse per questo nel 1983, tre anni e mezzo dopo la morte del fratello, ricevette una lettera firmata da 18 ex terroristi, che lo invitavano ad andarli a trovare in carcere. «Mi parve logico e doveroso accettare quell’invito», dirà poi, «ricordando che sant’Ignazio voleva i gesuiti dediti alla predicazione e all’amministrazione dei sacramenti, ma anche alla riconciliazione dei dissidenti e a soccorrere quelli che sono nelle carceri». Dunque ci andò, e non una volta soltanto. In dieci anni incontra centinaia di detenuti, uomini e donne, italiani e stranieri. Dapprima soprattutto ex terroristi di destra e sinistra; poi anche comuni. Frequenta tutte le più importanti carceri italiane, con moltissimi detenuti tiene una fitta corrispondenza epistolare. E quando escono Si presentava ascoltando.
Qualche anno dopo un ex terrorista condannato all’ergastolo fece arrivare alla famiglia questo biglietto: «La testimonianza che a noi tutti diede la famiglia di Vittorio Bachelet ci interpellò, forse per la prima volta, sul senso etico della nostra azione e della lotta armata. Per la prima volta ci sentimmo interpellati eticamente e la cosa ci turbò assai; le nostre certezze cominciarono a scricchiolare come il colosso di Rodi. All’ora d’aria del giorno dopo nessuno di noi voleva ricordare quel fatto. Poi uno dei nostri capi storici ci provocò sull’episodio e capimmo che tutti, dico tutti, ne eravamo stati profondamente colpiti. Credo che quell’episodio segnò le nostre azioni da quel momento in poi».
Oggi i cattolici si chiedono come fare ad essere più presenti nella società. L’interrogativo è complesso e persino ambiguo, ma una risposta c’è: fare come Bachelet. Far crescere tanti cittadini credenti, laici cristiani come Vittorio Bachelet. Non è facile, ma forse non ci proviamo neppure perché troppo alta e disinteressata appare la loro testimonianza, troppo pericolosa la loro libertà, poco redditizia la loro militanza. Vittorio condivideva la fermissima convinzione di monsignor Costa, che il cardinale Ballestrero riassumeva così: “Preferiva essere uno sconfitto a motivo della sua mitezza che non un vittorioso a motivo della sua forza”.
Per lui il servizio era proprio servizio, senza ricambio né gloria. Era una di quelle rare persone che pensano e che fanno; e conservano la coerenza tra le parole, i pensieri e i fatti.
Lo spirito di servizio – è stato ricordato da qualcuno – è una delle scelte non forse dichiarate, ma profonde, dell’AC di sempre. Dice Tagore e tutti dovremmo poter dire alla fine della nostra vita: “Io dormivo e sognavo che la vita non era che gioia; mi svegliai e ho visto che la vita non era che servizio. Io ho servito e ho visto che il servizio era la gioia”. Che tutti noi sappiamo davvero riscoprire che il servizio è la gioia. Questo è l’augurio del vostro fedele servitore, il “campanaro della Domus Pacis”.