La Chiesa commemora oggi il settimo anniversario della morte di Giovanni Paolo II. Alle esequie celebrate in Piazza San Pietro, l’8 aprile del 2005, mentre il popolo di Dio lo invoca già Santo, il cardinale decano Joseph Ratzinger sottolinea che il Pontefice ha sempre risposto alla chiamata rivoltagli dal Signore. Lo ha seguito negli anni terribili della guerra e della dittatura, tra mille difficoltà. Lo ha seguito come sacerdote e poi vescovo, infine alla Cattedra di Pietro. Karol Wojtyla, osserva il suo amico e collaboratore, “è diventato una sola cosa con Cristo, il buon pastore che ama le sue pecore”: “L’amore di Cristo fu la forza dominante nel nostro amato Santo Padre; chi lo ha visto pregare, chi lo ha sentito predicare, lo sa. E così, grazie a questo profondo radicamento in Cristo ha potuto portare un peso, che va oltre le forze umane: Essere pastore del gregge di Cristo, dalla sua Chiesa universale”. Poi, con parole commosse, Joseph Ratzinger volge il cuore al cielo, parla direttamente all’amato Papa e chiede la sua benedizione: “Possiamo essere sicuri che il nostro amato Papa sta adesso alla finestra della Casa del Padre, ci vede e ci benedice. Sì, ci benedica, Santo Padre. Noi affidiamo la tua cara anima alla Madre di Dio, tua Madre”. E Joseph Ratzinger, divenuto ora Benedetto XVI, nella Messa di inizio Pontificato torna ad affidarsi alla protezione e al sostegno del suo predecessore. E fa sua la vibrante esortazione di Giovanni Paolo II, risuonata in un’altra celebrazione di inizio Pontificato: “Ancora, e continuamente, mi risuonano nelle orecchie le sue parole di allora: ‘Non abbiate paura, aprite anzi spalancate le porte a Cristo!’”. La commozione, nel ricordare la morte di Giovanni Paolo II, è ancora viva nella memoria dei fedeli di tutto il mondo: i canti che venivano da Piazza San Pietro, i canti che venivano dai suoi figli, le acclamazioni dei giovani che si facevano sempre più forti.
Giovanni Paolo II ha affrontato la malattia con coraggio e dignità. Quale insegnamento lascia a tutti i malati, anche a quelli non credenti? L’insegnamento più grande, forse, è dato dal fatto di riconoscere nell’uomo malato una maggiore completezza, una maggiore capacità di leggere il senso vero della vita che in quel momento particolare sembra farsi più elevato. Giovanni Paolo II ci ha dimostrato che nel momento della sofferenza siamo ancora più vicini a Dio, tra le sue braccia. E le sue braccia amano, ci accolgono senza giudicare; e che Dio non abbandona nessuno, neanche l’ultimo dei suoi figli, neanche quello che non crede in lui. Giovanni Paolo II ci ha insegnato che il mistero della sofferenza merita il massimo rispetto da parte di chiunque, che l’uomo acquisisce con la malattia una dimensione superiore, proprio perché la malattia gli impone di riflettere sulla propria esistenza, sulle sue scelte – quelle di ieri, quelle di oggi e quelle che farà anche domani. Papa Wojtyla chiamava scherzosamente il “Gemelli” “il Vaticano III”, dopo la residenza di San Pietro e quella di Castel Gandolfo.
Un altro tratto significativo del Papa, ma anche dell’uomo Karol Wojtyla probabilmente è stato proprio la sua capacità di accogliere e perdonare, e lo faceva senza giudicare: da uomo, prima, e da pontefice. Giovanni Paolo II ha sempre guardato all’altro come fa un padre con i propri figli, che non dimentica mai le difficoltà di vivere dei propri figli. Lui conosceva le prove della vita – l’abbiamo visto, leggendo la sua storia – quindi non occorreva per lui, fare troppe domande. Apriva le braccia e tutto diventava diverso. Tra le sue braccia, diventavi un persona nuova, un persona pulita.