Come recita lo slogan scelto come tema, Presbiteri e laici si accolgono nel Signore, il convegno diocesano del 26-28 giugno intende delineare le prospettive per un cammino di accoglienza, comunione e corresponsabilità tra presbiteri e comunità cristiana. Il tema è intrigante, ma se non impostato correttamente rischia di essere fuorviante.
Nell’affrontare la delicata questione del rapporto tra presbiteri e laici, occorre mantenere la prospettiva estroversa di una Chiesa che guarda al di là di se stessa, altrimenti si assolutizza la problematica relazionale preti-laici, restando prigionieri di una logica ecclesiocentrica. La mutua “ordinazione” che, secondo il dettato conciliare, deve esserci tra laici e presbiteri non è una partnership finalizzata allo “star bene assieme”, ma all’evangelizzazione e santificazione del mondo. Occorre saper guardare dentro i problemi per non ignorarli, ma anche guardare avanti per non restarvi avvitati in una sorta di autocompiacimento vittimistico, e soprattutto guardare oltre per attraversarli e modificare la loro carica negativa, trasformandola in positiva. Il contributo che l’Ac può offrire è aiutare tutta la comunità cristiana a porre nei giusti termini il nodo della laicità. Non dei laici, ma della laicità. Nella sua triplice declinazione: laicità della e nella Chiesa e laicità del mondo. Laicità della Chiesa: perché essa non si chiuda nella sacralità della torre d’avorio ma sia «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1); laicità nella Chiesa, perché essa riconosca e valorizzi al suo interno i carismi e ministeri laicali; laicità del mondo, perché ad esso non si neghi la sua alterità e autonomia, sola condizione per un dialogo che non porti alla “riconquista cristiana” ma apra alla conversione dal di dentro. Sciogliere questo nodo consente di non perdere l’orizzonte missionario, evitando ogni forma di clericalismo e affrontando con una fede adulta la sfida della secolarizzazione e della modernità.
Come è noto, la Lumen gentium al n. 10 chiarisce che il sacerdozio comune dei fedeli differisce «per essenza e non soltanto per grado» da quello gerarchico. Benché i padri conciliari non abbiano voluto entrare nel merito della natura di questa differenza essenziale e della “reciproca ordinazione” che vi è tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, lasciando ai teologi il compito di indagarvi più a fondo, la differenza di cui si parla è più profonda di quella di grado esistente tra episcopato, presbiterato e diaconato. Bisogna inoltre chiarire che il sacerdozio comune non è proprio solo dei laici, dal momento che tutti i fedeli col battesimo ricevono questo sacerdozio primordiale, che è la condizione di ogni ulteriore consacrazione. Ogni altra partecipazione al sacerdozio di Cristo non è che ulteriore sviluppo di questa fondamentale incorporazione. Nel textus prior proposto al Concilio si usava l’espressione “sacerdozio universale”. Non fu accettata per evitare ambiguità. Fu proposta quindi la dicitura “sacerdozio incoativo”, in quanto inizia nel battesimo e si perfeziona nell’ordine sacro. Ma avrebbe introdotto una differenza di grado e supposto un’imperfezione. Lo stesso dicasi per “sacerdozio spirituale”, “sacerdozio improprio” (laici) e “sacerdozio sacramentale” (preti). Si fece notare che anche il sacerdozio comune ha una base sacramentale e dunque è proprio, partecipando analogicamente suo peculiari modu all’unico sacerdozio di Cristo. Per le medesime ragioni furono rigettate le formule “metaforico”, “regale” o “laudatorio”. Ci fu anche chi propose di parlare “simpliciter de quoddam sacerdotium” (semplicemente di un certo sacerdozio), ma allora il sacerdozio comune sarebbe stato un vuoto simulacro.
Tra i padri vi erano due punti di vista diversi di impostare il rapporto laici-gerarchia. C’era chi pensava a un ruolo subordinato dei laici, che con umiltà offrono la loro competenza secolare nelle questioni ecclesiali. Il fondamento teologico di questa posizione è l’estrinsecismo: si è disposti a concedere ai laici una certa autonomia, per ragioni estrinseche, dovute alle nuove condizioni storiche secolarizzate. Si dà ai laici un ruolo legato alla contingenza (mancanza o insufficienza dei preti), non a ragioni teologiche. Fu invece una precisa scelta del Concilio di parlare del sacerdozio comune in senso verticale (direttamente derivato da Cristo) e non orizzontale (in confronto o contrapposizione con quello gerarchico), evitando una definizione per diminutionem e preferendo partire da ciò che unisce, rispetto a ciò che divide: l’apostolato dei laici ha ragioni intrinseche e non estrinseche, dovute alla pari dignità di ciascun battezzato. Il compito di diffondere la fede non è una possibilità conferita loro dalla Chiesa ma è un dovere che proviene dal fatto di essere membri della Chiesa. Ogni discepolo ha questo dovere pro parte sua. In tal modo si intendeva valorizzare la corresponsabilità, desiderando trovare nel laico un interlocutore alla pari con cui condividere, pur nella diversità dei ruoli, l’ansia comune per la missione della Chiesa. Dopo il Concilio si è passati da una teologia del laicato a una teologia della laicità. Restano tuttavia aperte alcune problematicità: parlare di ministerialità e laicità di tutta la Chiesa, non potrebbe far smarrire il proprium della condizione laicale e aprire la via a un nuovo clericalismo? E, all’opposto: impostare il dialogo Chiesa-mondo, nei suoi fondamenti antropologici (le istanze di dialogo e comunione sono presenti nell’uomo in quanto tale) non rischia di far trascurare quelli cristologici-sacramentali (Cristo è il Dio-uomo che unisce a sé la natura umana)? Domande aperte e affascinanti. A cui sono chiamati a rispondere assieme presbiteri e laici, pur nella distinzione dei ruoli.
Giacomo Belvedere