Dalla grande carneficina che fu la II Guerra Mondiale spuntano ormai con frequenza tante belle figure in campo militare e civile: eroi che gli Stati hanno provveduto nel tempo a ricordare. Ma vi furono anche eroi più silenziosi, nascosti o rimasti a lungo trascurati nel ricordo ufficiale, che diedero la loro vita per la salvezza di altre. Fra loro troviamo il servo di Dio Gino Pistoni, un giovane d’Azione Cattolica. Gino nasce ad Ivrea, in provincia di Torino, il 25 febbraio 1924 da Dante Giacomo Pistoni e Maria Ferrando, lavoratori seri e onesti che gestiscono un negozio di articoli casalinghi. Gino è il secondogenito dei quattro figli dei Pistoni, dopo Laura, e prima di Bianca e del piccolo Pier Giorgio, di 12 anni più giovane. Gino sta bene in famiglia, esprimendo il suo affetto con sincerità e una confidenza abbastanza rare per quei tempi. Verso i genitori dimostra tenerezza grande e rispetto. Si rammarica sinceramente di qualche risultato scolastico non soddisfacente, per il dispiacere procurato ai genitori. Gino frequenta il corso di ragioneria presso il Collegio S. Giuseppe di Torino, diretto dai Fratelli delle Scuole Cristiane. Le materie in cui ottiene i risultati migliori sono quelle tecniche commerciali, la matematica, la storia e la geografia, segno del suo interesse multiforme per le vicende e i luoghi.
Nel 1942 Gino entra nelle file dell’Azione Cattolica della città di Ivrea; qui conosce figure eminenti nella formazione della gioventù, sacerdoti e laici, che gli fanno da guida nella sua attività di giovane impegnato a mettere in pratica il triplice motto dell’Associazione: Preghiera, Azione, Sacrificio. Gino è letteralmente conquistato dalla vitalità di un gruppo di quei giovani appassionati a realizzare un progetto che riempiva di entusiasmo la loro vita. Gino avverte il suo cammino nell’Azione Cattolica come risposta alla chiamata di Gesù. Per questo consiglia agli altri di seguire lo stesso atteggiamento che è stato decisivo per lui, dando alla sua vita “uno scopo che la rendesse degna di essere vissuta”.
Ad un giovane del paese di Strambino, Angelo, che esita ad accettare un incarico in Azione Cattolica, Gino scrive in una delle sue rare lettere: “Rientra in te stesso, medita qualche istante, interroga la tua coscienza ed ascolta se, per bocca dell’Apostolo Carretto, Gesù non abbia parlato a te, al tuo cuore, per chiamarti a collaborare all’opera della Redenzione. Raccogliti e giudica imparzialmente… Se il Signore ti ha chiamato, non rigettare la sua Grazia, ma rispondi generoso all’appello divino”.
L’entusiasmo diventa la parola d’ordine di Gino: per lui tutto è possibile. I suoi amici dell’Associazione lo chiamano: “Gino, l’entusiasmo. Gino, l’apostolo di fuoco”. In breve tempo Pistoni diventa il segretario del Centro diocesano della Gioventù Cattolica di Ivrea, col compito di redigere la contabilità, organizzare giornate e convegni, mettere a punto gli aspetti amministrativi dei segretari parrocchiali, fare il resoconto del tesseramento degli iscritti all’Associazione, cercare di reclutare nuovi iscritti con la testimonianza e la convinzione. Gino non è un gran parlatore, né un conferenziere. Pian piano però impara anche ad esporre riuscendo a vincere la sua notevole difficoltà a parlare in pubblico.
Ogni domenica Gino e i suoi amici del Centro diocesano partono, in bicicletta o in treno, per andare nelle parrocchie o nelle foranie per incontrare i responsabili o direttamente i gruppi di ragazzi, sostenerli, animarli, indicare le proposte che andavano svolte. Raramente i responsabili diocesani di Ivrea si muovono in macchina, quella del Centro, guidata da Gino, uno dei pochi dotato di patente per “motori ad esplosione”.
Gino vive con pudore la propria fede: rare volte si apre a confidenze sulla sua vita intima spirituale, e lo fa soprattutto in montagna. “La montagna ci fa più buoni – dice – Siamo più vicini a Dio!”. Nel suo Diario di montagna possiamo leggere: “Mi sento leggero e puro vicino al cielo. Un pietoso velo di nubi copre la terra e gli uomini con le loro miserie. Solo mi circondano e colpiscono lo sguardo le opere di Dio, che stanno a testimoniare della sua grandezza e gli rendono gloria. L’anima assorta rende spontaneamente lode al creatore: in tanta purezza, semplicità, quiete è con lui in Comunione perfetta. Vorrei posare lassù un sedicente ateo, un miscredente e penso che spontaneo gli uscirebbe dalla bocca: “Signore, io credo”.
Gino vive un colloquio intimo con Gesù, fatto di confronto con la Parola, di discernimento per le decisioni piccole e grandi, di ricerca della volontà di Dio. Lo troviamo la sera nel Duomo di Ivrea, nel suo angoletto a destra della Cappella del Santissimo, per contemplare Gesù e stare insieme a Lui. E anche durante la guerra, gli piace sostare nelle chiese più solitarie ed abbandonate.
Il suo fecondo apostolato nasce da un finissimo spirito di preghiera, incentrata sull’Eucaristia, sulla lettura spirituale e sulla forte devozione alla Madonna. L’Eucaristia quotidiana gli diventa indispensabile. La sorella Laura racconta che Gino fa molta fatica a svegliarsi presto la mattina per arrivare in tempo alla Messa. Un giorno allora Gino va da lei e le dice: “Ti do il permesso di spruzzarmi con l’acqua, aprire le persiane, tutto ciò che vuoi, purché mi svegli!”. Persino in caserma, durante il militare, Gino mantiene questa decisione: alle 7,15 di ogni giorno va sotto la finestra dell’amico Depaoli per svegliarlo in tempo e andare insieme a Messa al Duomo.
Oltre la devozione eucaristica, in Gino è presente l’amore e la preghiera verso Maria: non si accontenta della recita quotidiana del Rosario, ed è particolarmente affezionato alla recita dell’Ufficio alla Madonna. Porta il libretto sempre con sé e lo recita nei momenti più impensati: perfino mentre gioca a calcio. Se sta in porta, infatti, e l’azione è lontana, lo prende e ne recita una parte con un occhio sempre al pallone!
Anche durante il servizio militare Gino si inginocchia ai piedi della branda a pregare tra il dileggio dei camerati, i lazzi blasfemi e le barzellette oscene. Ma lui continua, riuscendo a farsi stimare per questa sua fermezza.
La preghiera è entrata nella vita di Gino come un fuoco: brucia in lui e non può essere contenuta, ma si manifesta a tutti, sia nell’apostolato diretto, sia nelle forme di amore, di testimonianza, di dono di sé. Il suo impegno nell’apostolato diventa quotidiano, tanto che il papà preavvisa il presidente diocesano che dopo la guerra Gino non avrebbe avuto tanto tempo da dedicare all’Azione Cattolica.
Nei confronti degli aderenti all’Associazione Gino ha pazienza e speranza per chi attraversava momenti di oscurità; sa quale importanza per la vita possa avere l’AC e ha fiducia che come la Grazia ha lavorato per lui, tirandolo fuori dalla “vita vuota”, così agirà negli altri. Perciò occorre non condannare, ma incoraggiare serenamente, non imporre, ma persuadere, non allontanare,ma testimoniare nel silenzio e accogliere a braccia aperte. L’unica cosa che non riesce a sopportare sono quelli che non si decidono, che rimangono a galleggiare in una vita mediocre e tiepida, dove non c’è né il fuoco della decisione, né il freddo della lontananza.
Lo sport è una passione vitale per Gino: un campo in cui può esprimere la sua esuberanza fisica e la sua passione per la vita. Gino interpreta lo sport come occasione di formazione e di esercizio ai valori della lealtà, dell’amicizia, del rispetto dell’avversario, di condivisione della gioia, di rispetto di sé. Gino è un elemento fondamentale della squadra di pallacanestro di Ivrea e nel gioco è leale: risponde alle violenze avversarie sempre con il suo gioco brioso e virile, senza ritorsioni, né rancori, chiedendo scusa e rialzando l’avversario battuto. Sa anche frenare i più scalmanati, impedendo che la discussione in campo finisca in scazzottata.
Nel settembre 1943 Gino è convocato per un torneo di pallacanestro regionale, ma in contemporanea c’è una tre giorni di Azione Cattolica ad Asti. Gino sceglie di partecipare a quest’ultima, scatenando il “furore” di compagni e dirigenti, ma suscitando anche una tacita ammirazione per la sua fermezza di carattere. Quasi senza accorgersene Gino abbandona la pallacanestro per diventare “atleta di Cristo” e dedicarsi interamente al servizio del Regno.
Gennaio 1944. Ultimo anno intero di guerra. Le vite umane falciate e mutilate non si contano più. Disperazione, odio, freddezza spietata, passioni sfrenate al di fuori di ogni regola: è il tempo delle tenebre. Oltre i fronti di guerra, nel cuore dell’Europa, si realizza la tragedia dello sterminio di milioni di innocenti nei campi di concentramento. In Italia regna il caos totale: soldati senza eserciti, amici che diventano nemici e viceversa, assenza totale di ogni riferimento ufficiale e politico, la Patria invasa, occupata, lacerata tra poteri opposti. “Legalmente” i Tedeschi e i Repubblichini di Salò detengono il potere. Ma, davanti ai misfatti delle ideologie naziste e fasciste, molti non ci stanno e comincia una “ribellione” degli spiriti e delle coscienze.
È in questo marasma tragico che Gino si affaccia con i suoi vent’anni. Ha un’esuberanza e un’allegria esplosiva, una riserva inesauribile di speranza e nello stesso tempo una consapevolezza delle sue responsabilità di uomo, di cittadino, di cristiano. Nei primi giorni del gennaio 1944, Gino riceve la cartolina precetto per il servizio militare. Si presenta al distretto militare di Ivrea e viene arruolato nella Guardia Nazionale Repubblicana, con destinazione alla fureria e al magazzino. Gino avrebbe potuto evitare l’arruolamento perché soffre di sinovite al ginocchio o essere impiegato presso una fabbrica di attrezzature belliche di un amico del padre ed essere così esonerato dal servizio militare, ma una tale scelta gli sembra un atto di debolezza nei confronti dei suoi amici che invece vengono chiamati alle armi: “Non vorrò mai che si dica che noi dell’AC non sappiamo amare la patria. – dice ad un amico – Sappiamo pur dare qualcosa a questo grande ideale”.
Gino entrando in caserma e indossando la divisa militare non cambia affatto. Stringe amicizia con altri giovani commilitoni dell’AC, convince chi lo sfotteva a recitare il Rosario insieme a Lui. E alla fine la camerata di Gino, composta da circa 50 soldati, è l’unica di tutta la caserma in cui la sera si recita il Rosario. All’avvicinarsi della Pasqua riesce a portare la caserma al Precetto Pasquale.
Il Giovedì santo partecipa alla celebrazione dell’Ora Getsemanica a Torino per la sua entrata nella Società Operaia di Gedda e scrive una bellissima preghiera in cui esprime il suo ringraziamento a Cristo per averlo chiamato a far parte dell’Azione Cattolica, esprimendo il suo vivo desiderio di dividere con Lui le sofferenze del Getsemani per la salvezza delle anime.
In caserma Gino segue bene quello che stava succedendo in Italia e in particolare nella Repubblica Sociale di Salò, all’interno della quale si trova. I Tedeschi occupanti inaspriscono sempre di più il loro comando con divieti e drastiche repressioni. I fascisti sono al loro servizio. Emergono le formazioni paramilitari più fanatiche, come le Brigate nere, che spaventano tutti. Nessuno sta dalla parte della popolazione. L’esercito italiano nel nord non esiste. Chi comincia a ribellarsi all’occupazione tedesca e alla prepotenza fascista sono invece i partigiani, uomini e donne, soprattutto giovani, che si rifiutano di accettare la situazione che si è venuta a creare: una situazione in cui regna un’ideologia di violenza, di totalitarismo, di razzismo, che opprime ferocemente le popolazioni e distrugge i valori della convivenza civile. Gino si prepara a fare la sua parte in questo momento così cruciale.
Gino, insieme con alcuni amici della GIAC, ha avuto dei contatti con gruppi della Resistenza della zona e si accorda con la 76° Brigata Garibaldi, che opera nelle montagne sopra Ivrea. La notte tra il 26 e il 27 giugno del 1944 una trentina di partigiani giungono con un camion da Trovinasse vicino al Distretto militare di Ivrea. Dall’interno Gino e i suoi amici aprono il portone, facendo entrare i partigiani e aiutandoli a caricare sul camion viveri, armi e munizioni. Mentre tutto sta procedendo secondo i piani previsti, ecco sopraggiungere un militare tedesco, componente del reparto che controlla il Distretto militare. Qualcuno dei partigiani fa partire una raffica di mitra e tutto si fa confuso e concitato. Il tedesco viene ucciso e i partigiani fuggono portando in salvo il loro bottino. Sul camion con i partigiani salgono anche Gino ed altri 20 soldati, secondo i piani concordati.
Gino diventa un partigiano e sceglie come nome di battaglia per mantenere la clandestinità, quello di “Ginàs”, l’equivalente piemontese di “Ginaccio”, scelto da Gino in chiave umoristica. La scelta della clandestinità di Gino e degli altri soldati viene coperta per evitare rappresaglie sui loro familiari: in paese si dice che quei giovani sono stati “prelevati” e fatti prigionieri da un’azione di banditi partigiani. Gli ordinamenti della Repubblica di Salò sono chiari contro chi si dà alla clandestinità: i familiari vengono colpiti da vari provvedimenti, quali il ritiro della tessera annonaria, l’arresto del capofamiglia, la chiusura a tempo indeterminato degli esercizi pubblici gestiti dalla famiglia, con la scritta: “Chiuso perché nella famiglia c’è un disertore”.
Il partigiano Ginàs, come emerge dalle testimonianze del comandante del battaglione e degli altri partigiani della 76° Brigata Garibaldi, è un giovane entusiasta, dinamico, pronto a qualsiasi servizio, di giorno e di notte. Anche sulla montagna Gino ricrea un nucleo di AC: si prega insieme, si assiste alla Messa, si recita ad alta voce il Rosario, si difendono le tesi cattoliche contro la dialettica marxista, allora di moda nella Brigata Garibaldi.
Durante un turno di guardia Ginàs e la partigiana Mariuccia si vedono passare una volpe davanti e gli sparano tre colpi, centrandola in pieno. I tre colpi però sono il segnale di allarme in caso di attacco dei nazifascisti: il campo entra in subbuglio e tutti si preparano alla difesa. Quando il motivo della sparatoria viene chiarito, scattano le sanzioni: Ginàs e Mariuccia vengoro consegnati e vi rimangono per alcuni giorni. La privazione della Messa domenicale causa un serio dolore a Gino. I compagni giudicano che era la punizione più grave che si poteva infliggere a Gino.
La consegna di Gino è interrotta da una missione che coinvolge tutta la 76° Brigata Garibaldi: l’obiettivo è la liberazione dai nazifascisti della valle di Gressoney. È un obiettivo strategico di notevole importanza, in quanto l’occupazione della valle permetterà un passaggio diretto con la Svizzera e un appoggio ai movimenti di resistenza dell’Alto Piemonte e della Val d’Aosta.
Gino è stato chiarissimo sin dall’inizio della sua lotta partigiana anche con i suoi superiori: è andato sulle montagne per dare il suo contributo reale a un’opera di costruzione e non di distruzione. Tutti i partigiani portano le armi perché devono difendersi da un nemico crudele e da una ideologia razzista e violenta e devono proteggere la popolazione civile inerme e indifesa. Gino Pistoni, invece, sceglie di non portare le armi e di non sparare ai nemici. La sua scelta è rispettata da tutti i compagni che ne hanno conosciuto la generosità, la disponibilità, la capacità di sacrificio.
La Brigata Garibaldi ha il compito di far saltare il ponte sul torrente Rechanter, nella località Tour d’Herreraz, e di tagliare i fili del telefono per impedire i collegamenti tra i reparti nazifascisti. Il ponte viene fatto saltare, ma gli incaricati di tagliare i fili fanno confusione e tagliano i fili della luce, lasciando la valle al buio, ma permettendo le comunicazioni. All’alba un autoblindo di fascisti viene ad accertare i danni causati al ponte dal sabotaggio. I partigiani sparano: alcuni cadono, altri si arrendono, altri riescono a fuggire. Alla fine dell’imboscata ai fascisti rimangono a terra alcuni feriti. Un militare fascista, in particolare, agita lentamente il braccio in segno di resa e grida aiuto.
Gino, dopo una lunga discussione con il comandante Grillo, lo riesce a convincere a permettergli di soccorrere il fascista ferito: altri partigiani scenderanno insieme a Ginàs per aiutarlo e per raccogliere armi e munizioni dei fascisti caduti. Buciu torna su con le armi recuperate, mentre Gino, Mariuccia ed altri rimangono a medicare il ferito, un ragazzo di circa 16 anni. I partigiani approntano una barella di fortuna e cominciano a risalire il costone.
Ormai però la colonna tedesca si sta avvicinando: quattro autocarri con un centinaio di soldati, autoblindo armati di mortai, camioncini, mitragliere. I Tedeschi cominciano a sparare direttamente sul bosco, dove si intravede il movimento dei partigiani che stanno risalendo il costone o provando a fuggire. Piazzano i loro mortai sui camion e lanciano bombe in alto.
All’arrivo della colonna tedesca Gino e i suoi amici stanno risalendo il costone sulla riva destra del Rechanter. Stanno trasportando il fascista ferito, quando sentono le raffiche delle mitragliere e i boati dei mortai. Si rendono conto del pericolo. Mettono il ferito al riparo in prossimità di una baita e cercano di risalire per raggiungere i compagni e sfuggire al bombardamento. Ginàs e Patouski si attardano ancora. Cade una prima bomba, poi una seconda. Ginàs è colpito da una scheggia di mortaio che gli recide l’arteria femorale e precipita in una scarpata. Qualcuno lo vede e prova ad aiutarlo, ma Gino gli grida: “Vai, vai, mettiti in salvo!”.
Gino prova medicarsi da solo: si stringe la gamba con la cintura dei pantaloni per provare a fermare il sangue, tampona la ferita con la canottiera e i fazzoletti. Ma il sangue continua ad uscire copiosamente. Gino si rende conto che la sua corsa terrena sta per terminare. Prende il suo tascapane di stoffa bianca e col suo dito intinto nel sangue scrive: “OFFRO MIA VITA X A.C. E ITALIA. W CRISTO RE”. Il partigiano disarmato muore il 25 luglio 1944.
Il cadavere di Gino viene ritrovato dopo cinque giorni. Accanto al suo corpo viene ritrovato anche il libretto del “Piccolo Ufficio della Beata Vergine”, a cui Gino era molto affezionato e che recitava con assoluta regolarità. Il libretto è tutto macchiato di sangue, segno che Gino lo aveva sfogliato, recitando le varie preghiere, soprattutto quelle dedicate alla preparazione ad una buona morte. Il suo funerale si tiene in forma privata a causa della guerra; ma la fama della sua santità si estende subito in tutta l’Italia. Il suo testamento di sangue, diviene oggetto di scritti dei Dirigenti d’Azione Cattolica dell’epoca.
Nel decennio della morte (giugno 1954) si tiene ad Ivrea una solenne rievocazione della figura di Gino, continuata poi a Tour d’Herreraz; sul luogo della morte per la prima volta viene celebrata la S. Messa. Sullo stesso luogo viene posta un lapide con la scritta:
SU QUESTE ROCCE
DOVE OGGI È GIOIA E LIBERTÀ
NEL TRAGICO MATTINO
DEL 25 LUGLIO 1944
RECISI DAL LAMPO DI COLPI MORTALI
RECLINAVANO NELLA MORTE
I VENTI ANNI DI
GINO PISTONI
FEDELE AL PRECETTO DIVINO
CHE NON ESISTE AMORE PIÙ GRANDE
DI CHI DÀ LA VITA PER UN AMICO
EGLI DONAVA LA SUA PER IL NEMICO
E SULL’UMILE SACCO
TESTIMONE DI NOBILE LOTTA
COL SANGUE ARDENTE
“ITALIA” SCRISSE
E COME FUOCO INCISE
“VIVA CRISTO RE”
Alla Casa Alpina di Gressoney St. Jean, acquistata dalla diocesi di Ivrea dopo la guerra per ospitare le attività estive e i ritiri dell’AC e della gioventù diocesana, viene dato il nome di “Gino Pistoni”, come per mettere sotto la protezione di questo giovane testimone la crescita spirituale e civile dei giovani cristiani.
Il sacchetto con la scritta viene donato dalla famiglia alla Diocesi di Ivrea ed è conservato prima nella Casa Alpina e poi esposto nella cappella privata del Vescovo presso la Curia diocesana di Ivrea. Durante la sua visita alla Diocesi (18-19 marzo 1990) il papa Giovanni Paolo II si ferma a lungo davanti a questo sacchetto, evocando successivamente in più occasioni la figura di questo giovane perché la sua testimonianza sia per tutti di incoraggiamento e di stimolo.
Nel 1994, a 50 anni dalla sua morte, il vescovo di Ivrea avvia la causa di beatificazione, che prosegue presso la Congregazione delle Cause dei Santi dal 1999.