Rosario Livatino

Rosario Livatino nasce a Canicattì, in provincia di Agrigento, il 3 ottobre 1952, figlio unico di Vincenzo Livatino e Rosalia Corbo. Vive un’infanzia serena nella semplicità e nel decoro di una famiglia borghese, appartata e schiva, che lo segue con attenzione e tenero affetto, manifestando un precoce interesse per la lettura e lo studio.
Negli anni del liceo Livatino è un ragazzo che scende di rado a fare ricreazione per restare in classe ad aiutare qualche compagno in difficoltà. Non c’è disciplina al cui studio egli non si applichi con totale dedizione. Pur avendo particolare propensione per gli studi classici, eccelle in tutte le materie, riportando sempre il massimo dei voti.
Aperto ai bisogni degli altri, oltre che studiare intensamente, il giovane Livatino s’impegna nell’Azione Cattolica. In casa Rosario respira aria di convinta religiosità, ma influiscono su di lui per la sua formazione personale i docenti di religione, sacerdoti di altissimo livello dottrinale e spirituale.
Rosario infatti frequenta la prima liceale quando al suo professore di religione scrive: “La Bibbia è lo scrigno dove è racchiuso il gioiello più prezioso che esista: la parola di Dio. Un gioiello che non si consuma mai… e che non è futile ornamento, ma un meraviglioso e saggio maestro di vita, di vita spirituale e materiale che in esso si fondono a indicare all’uomo una via, una via piena di luce… Leggendola e comprendendola, l’uomo ne riceve i migliori consigli perché la sua vita spirituale si svolga serena e senza compromessi”.
La laurea in giurisprudenza, conseguita nel 1975 con centodieci e lode, corona degnamente il suo curriculum scolastico, ma non gli fa abbandonare l’applicazione allo studio, anzi lo predispone maggiormente ad ampliare ed arricchire il suo pur vasto patrimonio culturale. Sulla propria agenda, il giorno della laurea, scrive con la penna rossa, in bella evidenza: “Ho prestato giuramento; da oggi sono in Magistratura”. E poi, a matita, vi aggiunge: “Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige”.
Dal dicembre 1977 al luglio 1978 Rosario presta servizio come vicedirettore in prova presso la sede dell’Ufficio del Registro di Agrigento, meritandosi, per la sua instancabilità, affabilità e modestia, la stima e l’affetto di tutti. Otto mesi soltanto bastarono a Rosario Livatino per lasciare nei suoi colleghi e nei superiori un ricordo indelebile.
Nel frattempo partecipa con successo al concorso in magistratura e superatolo lavora a Caltanissetta quale uditore giudiziario passando poi al Tribunale di Agrigento, dove come Sostituto Procuratore della Repubblica dal settembre 1979 all’agosto 1989 si occupa delle più delicate indagini antimafia, di criminalità comune, e anche di quella che poi negli anni ’90 sarebbe scoppiata come la “Tangentopoli siciliana”. E’ proprio lui, assieme ad altri colleghi, ad interrogare per primo un ministro dello Stato.
Quando termina il suo lavoro al Palazzo di Giustizia, continua a casa l’esame e l’approfondimento delle carte e dei fascicoli giudiziari. E spesso fino a tarda notte, seduto alla scrivania del suo austero studio, sulla quale tiene sempre una copia del Vangelo, resta chino sugli atti processuali, rimettendoci il riposo e il sonno. Il suo Vangelo è tutto annotato: segno che lo frequenta spesso, almeno quanto i codici, strumenti quotidiani del suo lavoro.
Rosario ha una profonda conoscenza delle Sacre Scritture, dei Documenti conciliari, della Patristica. Il suo è un cristianesimo che si nutre di studio, di letture meditate, di riflessione. È un uomo di preghiera, e la preghiera è il cuore delle sue giornate, è la guida che informa la sua vita e che la trascina “verso il centro che è Dio, e fa discendere dei gradini sempre più profondi”.
Alla giustizia Livatino consacra integralmente se stesso, per difendere la dignità dell’uomo: avverte infatti in maniera molto forte il problema della giustizia e lo assume ben presto come una vera missione. Il dramma del giudicare un altro essere umano, di dover decidere della sua sorte, non è cosa da poco per chi senta profondo in sé il tarlo della coscienza unito a un sincero senso di carità.
Da Canicattì tutte le mattine il giudice Livatino raggiunge la sede del Tribunale, ad Agrigento: una manciata di chilometri percorsi in automobile. Prima di entrare in ufficio, la visita puntuale alla chiesa di S. Giuseppe, vicino al Palazzo di Giustizia, dove si ferma a pregare. Lo ricorda bene mons. Giuseppe Di Marco, allora parroco, che molte volte si è domandato chi sia quel giovane così raccolto, concentrato nelle sue preghiere: “Non sapevo chi fosse, avevo solo capito che era un magistrato… Rimaneva per un po’ e poi se ne andava in silenzio. Solo dopo la tragedia, quando ho visto la sua foto sul giornale, ho capito chi era”.
I casi più difficili del suo lavoro di giudice, Rosario li risolve lì, ai piedi dell’altare, la mattina prima di entrare in Tribunale. Lì Saro invoca l’assistenza dello Spirito Santo per poter giudicare con retto giudizio, per scegliere ciò che è meglio da farsi “e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare… Il magistrato – scrive ancora Livatino – deve, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; deve avvertire tutto il peso del potere affidato nelle sue mani… disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione”.
Alla Procura di Agrigento il lavoro è tanto e lui non si tira mai indietro. Resta in ufficio anche quando non c’è più nessuno. Scrupoloso, il giorno di ferragosto non esita una volta a presentarsi in Procura solo per poter firmare un ordine di scarcerazione, così da non lasciare neppure un’ora di più in prigione un imputato. Lavora infaticabilmente, senza alcuna smania di protagonismo, senza ostentazione. Rifugge, anzi, con ogni mezzo la notorietà. In occasione di un’udienza piuttosto movimentata, con molti cronisti e fotografi, si nasconde dietro un carabiniere per non essere immortalato (“Sono in tribunale per lavorare…”, dice).
“Giudice ragazzino” lo battezza l’allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, insieme ad altri suoi colleghi impegnati nella lotta alla corruzione ed alla delinquenza assassina: un battesimo collettivo che non è certo un complimento: “ogni ragazzino che ha vinto il concorso ritiene di dover esercitare l’azione penale a diritto e a rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a nessuno? … A questo ragazzino io non gli affiderei nemmeno l’amministrazione di una casa terrena”.
Rosario Livatino però è un lavoratore schivo, servitore silenzioso e infaticabile della giustizia. Alle pubbliche dichiarazioni preferisce, per carattere e per convinzione, il quotidiano impegno al tavolo di lavoro; è scrupoloso e ostinato. Rosario ha un chiaro programma di vita. “STD” scrive ogni giorno nella sua agenda, intendendo Sub Tutela Dei, sotto la tutela di Dio.
Scrive Livatino: “La vita è tutta tessuta di ideali, di fini da conseguire che, puri o impuri, hanno un solo scopo: il raggiungimento del bene. Il bene per noi, per il prossimo; e da questi ideali, da questi fini derivano il senso buono e cattivo della vita. Esaminando tutto ciò che ci circonda, attraverso un processo logico e razionalistico, si perviene a una origine comune, a un essere di indefinibile natura che ha dato origine a tutto. Tutto l’universo, per quanto immenso, si identifica in questo essere. Dio è come un perno su cui gira tutto ciò che è. Tutto viene e ritorna a Dio, Dio è principio e fine. L’uomo nella sua follia peccaminosa pensa spesso al principio, ma molto raramente alla fine…”
Per la profonda conoscenza che ha del fenomeno mafioso e la capacità di ricreare trame, di stabilire importanti nessi all’interno della complessa macchina investigativa, gli vengono affidate delle inchieste molto delicate. E lui, infaticabile e determinato, firma sentenze su sentenze, finendo con l’entrare nel mirino di Cosa Nostra.
Nel suo diario ci sono anche annotazioni che rivelano la sua sofferenza di uomo consapevole dei gravi rischi cui ogni giorno andava incontro nell’assiduo compimento del proprio dovere. Nelle agende dal 1984 al 1986 ci sono accenni drammatici a una crisi di coscienza, dovuta – pare – a minacce e condizionamenti: «Vedo nero nel mio futuro. Che Dio mi perdoni» (19 giugno 1984); «Oggi mi sono comunicato. Che il Signore mi protegga ed eviti che qualcosa di male venga da me ai miei genitori» (27 maggio 1986).
Le paure di Livatino diventano realtà: Rosario è ucciso, in un agguato mafioso, la mattina del 21 settembre ’90 sul viadotto Gasena lungo la Strada Statale 640 Agrigento-Caltanissetta mentre – senza scorta e con la sua Ford Fiesta amaranto – si reca come tutte le mattine in Tribunale ad Agrigento.
Livatino viene raggiunto da un commando di quattro sicari che si affiancano alla sua auto ed intuisce il pericolo di un agguato, facendo retromarcia. Riesce ad uscire dall’auto e corre disperatamente verso la campagna, ma viene raggiunto dal commando e barbaramente trucidato con un colpo di pistola in bocca, come a dire che adesso tacerà per sempre. Livatino muore a due settimane dal suo 38° compleanno.
Per la sua morte sono stati individuati, grazie al supertestimone Pietro Ivano Nava, i componenti del commando omicida che sono stati tutti condannati, in tre diversi processi nei vari gradi di giudizio, all’ergastolo con pene ridotte per i “collaboranti”. Rimane però ancora oscuro il “vero” contesto in cui è maturata la decisione di eliminare un giudice ininfluenzabile e corretto.
Uccidendo Rosario Livatino, la mafia stronca barbaramente una lucida intelligenza e ferma e un generoso cuore, che si era costantemente prodigato per “dare alla legge un’anima”. Principio questo che lo ha guidato costantemente nelle sue funzioni di magistrato, convinto com’era che la legge andava applicata con il contributo e la partecipazione delle doti della mente e del cuore. Rosario sapeva che tutti, indistintamente, saremo giudicati sull’amore. Non sulla ricchezza, sull’intelligenza, sulle capacità personali o su altre cose, ma soltanto sull’amore. Il banco di prova è, e resta, la carità.
Dopo il barbaro assassinio, la sua figura infatti comincia a venir fuori in tutta la sua profondità: come ad esempio, la sua carità, e il suo amore per gli ultimi, per i poveri. Si scopre che ogni mese, in segreto, Livatino consegnava una somma di denaro a persone che versavano in stato di indigenza; puntuale e sempre in incognito, faceva pure la spesa per alcuni di essi, soccorrendo alle loro prime necessità.
Quando Livatino muore, il custode dell’obitorio racconta tutte le volte che lo ha visto pregare accanto a cadaveri di individui pregiudicati nei quali si era imbattuto svolgendo il suo lavoro di sostituto procuratore al Tribunale di Agrigento; nei loro confronti, egli aveva anche applicato la legge, ma non per questo essi avevano cessato di essere suoi fratelli in Cristo.
Un servitore dello Stato. “Un martire della giustizia e, indirettamente, anche della fede…””, lo definisce pubblicamente Giovanni Paolo II ad Agrigento il 9 maggio del 1993 dopo aver incontrato i suoi genitori, e poi tralasciando i discorsi già scritti lancia il suo grido ai mafiosi siciliani perché si convertano.
A cinque anni dalla morte di Livatino, l’arcivescovo di Agrigento, Mons. Carmelo Ferraro, decide di aprire la fase informativa del processo di beatificazione. Oggi la prima fase si è conclusa e si stanno vagliando con attenzione le sentenze giudiziarie del giudice, quelle pagine in cui è racchiuso il suo amore per la giustizia e per gli uomini. Sub Tutela Dei, sotto la tutela di Dio.